Come è possibile che la tv (la Rai, servizio pubblico) riesca a trasformare la «nostra» storia in una mortificante sequenza di immaginette prive proprio di «storia», lontane dalle ragioni, dai sentimenti, persino dalla cronaca? Dalla fiction sull’assassino di Calabresi a quella sulla Fiat e la marcia dei 40mila, vince la mistificazione. Sto cercando di mettere in fila i titoli di quei romanzi, tra i più belli, che hanno raccontato la storia. Faccio fatica a non pensare all’Iliade o all’Anabasi di Senofonte, la cronaca di una lunga marcia di ritorno dalla guerra e dalla morte (come lo fu La tregua di Primo Levi). Ryszard Kapuscinski, il grande giornalista polacco scomparso nel 2007, in un libro spiegava quanto gli fosse stata d’insegnamento la lettura delle Storie di Erodoto (il suo libro si intitola appunto In viaggio con Erodoto). Capisco che l’antico e immenso Ero- doto (forse solo antiquato, polvere da museo, per alcuni) metta paura, ma basterebbe la lettura di qualcuna delle sue pagine per capire che cosa significhi «scrivere la storia»: il rapimento di Elena ad esempio.
Continuo di titolo in titolo, di autore in autore, Walter Scott della nostra infanzia (amatissimo da Lukacs), Tolstoi, Balzac, Stendhal, Victor Hugo, Dumas, Manzoni… una linea infinita. Se penso, al nostro Novecento italiano, non saprei dove fermarmi. Certo qualche decennio fa la critica lamentava la fragilità del romanzo storico italiano. Ma sarebbe bastato mettere in ordine, come ha fatto in un volume dei Meridiani Eraldo Affinati, quanto ci ha lasciato Mario Rigoni Stern, da Storia di Tonle a Il sergente nella neve, per ammirare l’affresco dell’Italia dalla prima guerra mondiale alla Liberazione…
Sto ritrovando allo stesso modo titoli di film, dalla Corazzata Potemkin, se non mi risuonasse ancora nelle orecchie l’urlo di Fantozzi. Taglio corto fino ai giorni nostri, tutti italiani. Visconti, Lizzani, Rosi, i fratelli Taviani, fino a Martone (con il risorgimentale Noi credevamo), fino a Marco Bellocchio con il fascismo di Vincere (con uno splendido Filippo Timi, che rifà Mussolini senza sentirsi obbligato ad assomigliare a Mussolini nel naso o nella pancia).
Anche questo è il patrimonio che ci sta appena dietro le spalle o addirittura accanto. Mi chiedo, di fronte a tanta ricchezza di cultura, tradizione, lavoro, scuola, come sia possibile che la televisione (la Rai, servizio pubblico) riesca a trasformare la «nostra» storia in una mortificante, per tutti, sequenza di immaginette prive proprio di «storia», tanto sono lontane dalle ragioni, dai sentimenti, persino dalla cronaca, persino dai gesti dei tempi che pretenderebbero di rappresentare. Se si decide di mettere in scena una gara di atletica, anni Ottanta, quando correva Gabriella Dorio, non si può lasciare in pista un gruppetto di dolcissime ragazzine cicciottelle, che non sanno che cosa significa il gesto atletico, candidandole a rappresentare le future speranze azzurre nel mezzofondo. Se si decide di presentare ai gio-ani, ovviamente ignari di quelle lotte e di quegli scioperi, Luigi Arisio come il don Chisciotte della catena di montaggio o l’apostolo del salone delle presse, non si può ignorare come la famosa «marcia dei quarantamila» (che poi erano poco più di diecimila) fosse stata un’idea dei vertici Fiat, come rivendicò qualche anno fa Carlo Callieri, capo del personale di Mirafiori (e come ricordava ieri su questo giornale l’ex sindaco di Torino, Diego Novelli). Non si possono trasformare migliaia di operai che esercitano un sacro- santo diritto, quello di difendere il lavoro, in fiancheggiatori dei terrorismo o essi stessi in terroristi. Non si può oltraggiare la memoria di Enrico Berlinguer, presentandolo come comiziante che aizza le folle, quando chiunque abbia nozione di politica sa che mai il segretario del Pci avrebbe condiviso un’occupazione della fabbrica che non avrebbe aperto alcuna strada: Berlinguer aveva espresso, come sentiva, la propria solidarietà ai lavoratori in lotta. Chi negherebbe la propria solidarietà agli operai della Electrolux.
Chiusa l’altra sera la sequenza di «fiction» che secondo la Rai avrebbe dovuto restituirci tre terribili momenti del nostro Novecento (da piazza Fontana con la morte di Pino Pinelli e l’assassinio del commissario Calabresi, al rapimento del giudice Sossi, agli scioperi di Torino e alla «marcia dei quarantamila»), allineati ai santi veri (alle cui biografie si è dedicata la nostra televisione con analoga banalità) i nuovi «santini» alla Arisio, resta inevasa la domanda: perché non riesce la «storia» in tv se non nelle forme di RaiStoria, che vive della virtù somma di presentarci documenti originali, aspri, crudi, documenti in bianco e nero che sanno trasmettere tanta verità oggettiva e insieme tanta emozione, che non coltiva l’ambizione di sceneggiare, inventare, colorare (attraverso peraltro quei colori perfidi che non stanno né in cielo né in terra, alla lettera), romanzare insomma?
Intanto non si può escludere che la Rai non condivida l’ignoranza del paese nel delirio che pare debba travolgerci (e che travolge anche l’abc della tecnica cinematografica). Si può ovviare: c’è una schiera di grandi storici che potrebbero offrire le chiavi giuste per interpretare secondo tanti punti di vista (come insegnava Erodoto) anche gli episodi più tragici, per rimettere insieme il «contesto»: come si possono capire lo scio- pero di Mirafiori e la «marcia dei quarantamila» senza sapere quali crisi industriale e politica vivesse l’Italia d’allora?
Non si può escludere però che qualcuno, las-ù, non si eserciti a rifare tutto a proprio gusto e a proprio vantaggio: in fondo il grande pubblico continua a istruirsi lì, sui Rai1, tra le padelle della Clerici e i pacchi di Insinna, e si può sempre pro- vare ad organizzare un «senso comune», che giovi alla causa, alla «propria causa» (si potrebbe usare maggior talento e maggior discrezione).
Si potrebbe sempre immaginare un’altra ragione più profonda: non ci appartiene una me- moria comune e la Rai nazional-popolare ne avrebbe bisogno vivo. La riflessione sul passato (dal fascismo al berlusconismo) ha sempre animato faide, mistificazioni, strumentalizzazioni e non una ricerca solidale e una critica condivisa e il vizio o il peccato non ci vogliono proprio abbandonare, «perché non siamo popolo, perché siam divisi». Però da qualche parte si dovrebbe cominciare e la Rai (a partire da chi la comanda), qual- che responsabilità dovrebbe avvertirla. In fondo il maestro Manzi, Mike Bongiorno e persino Carosello un po’ di educazione civica ce l’avevano insegnata.
L’Unità 31.01.14