Doveva essere una sera come tante. Una seduta notturna in Commissione Giustizia per lavorare al decreto sui diritti dei detenuti e il sovraffollamento carcerario. Due volumi pieni di emendamenti ostruzionistici presentati dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle, cui però ormai si è fatta l’abitudine. E invece è andato tutto per traverso. Gli emendamenti, la seduta, i voti, il dibattito. Perché invece di discutere, si è finito con il litigare. Invece di votare, si è occupata l’aula della commissione. Invece di licenziare il provvedimento, si sono licenziati l’educazione e il rispetto.
Le cose hanno cominciato a mettersi male fin dall’inizio. Quando la Presidente Ferranti ha aperto la seduta e i deputati del M5S hanno cominciato ad accalcarsi davanti la porta. A differenza di quanto accade di solito, anche chi non fa parte della commissione pretende di assistere ai lavori, e non accetta che per ragioni di sicurezza non sia possibile entrare in un’aula già stracolma. Mentre la Presidente cerca una soluzione, il malcontento aumenta. C’è chi sbuffa esasperato dalla giornata interminabile. C’è chi provoca. C’è chi rincara la dose. E pian piano è solo una grandissima confusione. Tutti parlano. Ci si accusa reciprocamente di intolleranza e di violenza. Nessuno ascolta. «Noi rappresentiamo i cittadini », urla un collega del M5S. «E noi chi rappresentiamo invece, nessuno? E i nostri elettori?», risponde uno del Pd. «E la violenza contro la collega Lupo?». «E gli insulti contro la Boldrini?». Ma è solo l’inizio. Prima dell’arrivo di altri grillini, prima del «voi del Pd siete il male», prima dei «fascisti» gridati che volano da una parte e dall’altra della sala, prima dei commessi che cominciano a temere per l’incolumità generale. È a questo punto che la Presidente, nonostante le proteste della Lega e del M5S, decide di annullare la seduta e di riconvocarla per l’indomani mattina.
Massimo De Rosa è uno tra gli ultimi ad andarsene. A «me non fa né caldo né freddo essere chiamato fascista» dice sbattendo la porta. Poi ci ripensa. Ma quando sta per entrare di nuovo con in mano il casco della moto, un commesso lo blocca. «Voi del Pd siete tutti collusi», urla allora. Poi, rivolto a noi donne, aggiunge con scherno: «E voi siete qui solo perché siete brave a fare i pompini». De Rosa è paonazzo, ma sembra finalmente contento. Io smetto per qualche secondo di respirare. Poi mi volto e vedo occhi sgranati e sguardi vuoti. Siamo tutte senza parole.
Con gli insulti, è sempre così. Lasciano di stucco, almeno in un primo momento. È per questo che i filosofi del linguaggio ne parlano come di una forma di hate speech, discorso dell’odio. Quando si insulta una persona, non si cerca né di dialogare, né di manifestare il proprio disaccordo. Quando la si insulta, si cerca solo di farla tacere. Che cosa si può mai rispondere quando qualcuno ci insulta d’altronde? Che non si è d’accordo? Che chi ci insulta sta sbagliando? Che non è affatto vero che le donne del Pd sono «brave solo a fare pompini»?
Chi insulta lo sa. Ed esulta dell’umiliazione che provoca, proprio come uno schiaffo in pieno viso che continua a far male anche dopo molto tempo. Allora sì, l’altra sera anche io sono rimasta ammutolita. Silenziosa e impotente di fronte agli insulti di De Rosa, nonostante questa storia dell’hate
speech la insegni da anni ai miei studenti per spiegare come nel momento in cui si insulta un interlocutore non è più una questione di diversità di idee o di opinioni, ma sempre e solo un gesto di violenza. Quando ci si trova di fronte alla violenza, tutto è più complicato. Molto più complicato delle teorie. Ecco perché, con le altre colleghe, ci abbiamo messo un po’ prima di reagire, prima di fare comunicati e dichiarazioni, prima di andare al commissariato e sporgere querela.
Ora però è fatta. E anche se De Rosa non si è nemmeno degnato di chiedere scusa, noi ci siamo riappropriate della nostra parola. Anche se sui social network c’è chi rimette in discussione quanto accaduto (“avete registrato?” “qualcuno è testimone?” “non starete mica inventando tutto, vero?”) e c’è persino chi osa rincarare la dose — spiegando che è proprio così, e che è evidente che De Rosa dice ciò che pensano tutti — , noi abbiamo rivendicato il rispetto della nostra dignità. Basta con la violenza nei confronti delle donne. Basta con gli insulti. Ma basta con gli schiaffi. Perché se De Rosa ha mostrato che il “nuovo” può anche essere terribilmente “vecchio”, il questore Dambruoso, con lo schiaffo alla deputata del M5S Lupo cui va tutta la mia solidarietà, ha mostrato che per molti, oggi, è veramente difficile meritare quell’“onorevole” di cui si dovrebbe invece cercare di essere fieri.
La Repubblica 31.01.14
******
La testimonianza di Michela Marzano, una delle 7 deputate Pd bersaglio del deputato M5S Massimo De Rosa
«Hate speech», discorso dell’odio. È così che in inglese si parla degli insulti. Quegli «atti linguistici» particolari che non servono solo a «dire», ma anche a «fare» qualcosa. Ossia ad offendere, a ferire, a far male. Perché quando si insulta una persona, lo scopo non è affatto quello di manifestare il proprio disaccordo e dialogare con l’interlocutore, ma piuttosto quello di togliergli le parole di bocca e farlo tacere.
Sono anni che lo insegno ai miei studenti a Parigi. Sono anni che mi sforzo di spiegare, come diceva il grande Albert Camus, che è solo quando si utilizzano le parole in modo corretto che si riesce poi a diminuire la quantità di disordine e di dolore che c’è nel mondo. Ecco perché la lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni passa anche attraverso l’attenzione che si pone al linguaggio. Ecco perché gli insulti legati al razzismo, all’omofobia o al maschilismo contribuiscono solo a peggiorare le condizioni di chi, «diverso», non corrisponde agli stereotipi.
Quello che non avrei mai immaginato, però, è il sentimento di desolazione che avrei io stessa provato di fronte questi insulti. Come è accaduto ieri sera alla Camera, durante la riunione serale della Commissione Giustizia. Dopo una giornata di ostruzionismo e dibattiti molto duri in Aula, conclusasi con l’assalto alla Presidenza da parte dei colleghi del M5S, si dovevano votare gli emendamenti al decreto legge sulle carceri. Invece di votare, però, il clima in Commissione ha cominciato subito a degenerare. Accuse reciproche di ostacoli al lavoro democratico. Invettive. Urla. Fino agli insulti.
«Voi donne del PD siete qui perché siete brave solo a fare i pompini», urla Massimo Felice De Rosa prima di essere allontanato dai commessi. Prima di altre urla. Perché poi è sempre così che finisce quando ci si insulta. A meno di non restare bloccati nel mutismo, come mi è accaduto. Impotente. Terribilmente impotente.
Le parole sono pietre, diceva già Carlo Levi. Ed è come unapietra che mi è arrivata addosso questa frase, lasciandomi senza parole. Prima di realizzare che tutto quello per cui mi sono battuta da sempre mi si stava sbriciolando in mano. Prima di riprendermi pian piano e decidere di sporgere denuncia con le altre colleghe del PD. Prima di capire che il solo modo di reagire per denunciare queste pratiche sessiste è riappropriarsi della parola e manifestare la propria soggettività, nonostante il tentativo altrui di farci tacere.
«Noi rappresentiamo i cittadini, voi siete il male assoluto». Era così che era iniziato tutto. Da chi rivendica sempre pacifismo e volontà di cambiare le cose democraticamente. Quanta democrazia e pacifismo c’è dietro la violenza degli insulti?
da Vanity Fair 31.01.14