Dopo Davos che ha riscoperto il disvalore economico delle diseguaglianze, dopo i Nobel Stiglitz e Krugman, dopo il Fondo monetario internazionale è la volta di Bankitalia a ricordarci con lo «Studio sulla ricchezza delle famiglie», che l’Italia è al vertice delle classifiche mondiali per ineguale distribuzione della ricchezza.
La Banca d’Italia ci dice che il nostro è un Paese ricco, anzi che gli italiani sono un popolo ricco con quasi 9mila miliardi di ricchezza, più di 6 volte il Pil, ma che questa ricchezza è altamente concentrata, essendo il 47% nelle mani di poco più di 2 milioni di famiglie su 24 milioni, mentre la metà del popolo, 12 milioni di famiglie ha meno del 10% della ricchezza totale e vive con redditi inferiori a 2mila euro al mese.
Non sono dati nuovi, sono dati ignorati dai politici, che peggiorano dopo anni di crisi dura, con redditi personali calati di 7 punti solo negli ultimi tre anni, dati che non ve- do alla ribalta del dibattito politico, Jobs act incluso. Le diseguaglianze, da anni attaccate dai progressisti come fattore di ingiustizia sociale e di lesa democrazia, nella società della conoscenza sono state riscoperte in una nuova veste, quella di ostacolo primario allo sviluppo. Mentre l’eguaglianza, intesa non come obiettivo finale di appiattimento di redditi e ricchezze indipendentemente da impegno e meriti individuali, ma come interesse anche economico di un Paese di mettere tutti i suoi figli in condizioni di partenza non palesemente diseguali – in pratica l’art.3 della nostra Costituzione «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana… » – viene ad assumere un nuovo valore, quella di fattore di sviluppo.
È questo il fatto nuovo messo in luce da tutti i dati delle ultime crisi e degli ultimi successi. I Paesi che hanno aumentato le diseguaglianze di redditi e ricchezze, sono quelli che più sentono i morsi della crisi da sovrapproduzione o sottoconsumo, mentre i Paesi a bassa diseguaglianza (con il coefficiente Gini inferiore a 0,3) sono quelli più in salute: Germania, Austria, Olanda, Francia e Paesi nordici in testa.
La filosofia thatcheriana e reganiana del thrikle down, lascia che i ricchi si arricchiscano sempre più, da essi qualcosa calerà anche sui poveri, si è chiaramente trasformata in quella del thrikle up, solo se le grandi masse sono messe in grado di partecipare al banchetto del sapere e della produzione tutto il Paese ne beneficerà.
L’altro grave problema ignorato o mal gestito dagli italiani è quello, connesso alle diseguaglianze, della denatalità. Che produce danni e fatti solo apparentemente contradittori, come quello della emigrazione di nostri giovani, fortemente aumentata proprio da quando sono iniziati gli effetti della denatalità. Dal 1975 le nascite si sono dimezzate da un milione a 500mila e venti anni dopo il buco demografico ha pesato sul mercato del lavoro in modo tale da attrarre 400mila immigrati l’anno.
Il paradosso è proprio questo, i danni congiunti della bassa innovazione del sistema Paese e della denatalità. Un Paese che per ogni due sessantenni che escono dal mercato del lavoro ha solo un ventenne che vi entra (per nascite dimezzate) non riesce neanche a dar lavoro ai… suoi pochi giovani, perché non innova e non fa riforme, per cui i migliori, diplomati e laureati soprattutto del Sud, sono costretti ad emigrare per carenza di lavori di qualità. Con 45 anni di età media, l’Italia è oggi il Paese più vecchio del mondo ma che invecchia male – non come la Germania che fa le riforme -, perché non fa le riforme necessarie per dividere più equamente redditi e ricchezze. Nell’ultimo decennio sono stati necessari 4 milioni di stranieri per la sopravvivenza delle nostre attività vitali, dall’agricoltura ai servizi alla persona, e siamo giunti in pochi anni a una quota di immigrati, il 10%, che altri Paesi avevano raggiunto in decenni.
Per tutti questi motivi l’Italia ha urgente bisogno di politiche di innovazione e di riforme per modernizzare il Paese, per combattere le diseguaglianze e quindi la denatalità e dare un futuro ai giovani, l’unica nostra speranza di un avvenire migliore.
L’UNità 28.01.14
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«Non basta la crescita, più equità nella redistribuzione» di Bianca Di Giovanni
«I dati che ci fornisce Bankitalia ci dicono una cosa chiara: la crisi non colpisce tutti allo stesso modo. Questo vuol dire che non bastano politiche in favore del- la produzione, cioè per far ripartire la crescita. Serve anche la redistribuzione dei redditi». Maria Cecilia Guerra, sottosegretario al Welfare, punta il dito su una questione più politica che economica. Di fronte alla recessione, bisogna fare delle scelte «di parte» ovvero in favore di coloro che subiscono più perdite.
Chi sono i più colpiti in Italia?
«Sappiamo anche dai dati Istat che la povertà si concentra nelle famiglie con minori. Ecco perché la società ha il do- vere di prendersi cura di queste famiglie: un minore è incolpevole di quello che gli accade, e se passa i primi anni in condizioni di indigenza avrà tutta la vita segnata».
Da quello che emerge, sembra che le politiche sociali abbiano effetti molto ridotti.
«Lo spaccato che emerge è senza dubbio allarmante, per la crescita delle famiglie in stato di povertà e la concentrazione della ricchezza in una fascia ristretta della popolazione. Per questa ragione abbiamo avviato una misura di contrasto alla povertà assoluta, che finora non c’era in Italia».
Quanto è stato stanziato?
«Premetto che attuare una misura di questo tipo richiederebbe una grande quantità di risorse, che evidentemente non abbiamo. Così si è deciso di attuare la misura per tappe successive. Il Sia (sostegno all’inclusione attiva) poi, non prevede solo un aiuto materiale, ma ha anche l’obiettivo di rimettere le persone su un cammino positivo, con corsi di formazione per chi vuole rientrare nel mercato del lavoro, o con l’attenzione all’obbligo scolastico per i bambini».
Sì, ma lo stanziamento?
«Come ho detto, la misura si compone per passi successivi. È già partita la prima tranche di aiuti, pari a 50 milioni, destinata alle famiglie con minori e con adulti in difficoltà lavorative (disoccupati o precari) che risiedono nelle 12 città con più di 250mila abitanti. Dall’estate-autunno di quest’anno la stessa misura si estenderà a tutto il territorio delle 8 Regioni meridionali, con uno stanziamento di 167 milioni nel biennio. Abbiamo già fatto molti incontri con le Regioni, che dovranno varare i bandi. Poi ci sono i 250 milioni destinati alla social card tradizionale, che in prospettiva dovrà essere trasformata nel Sia. Per questo un centinaio di milioni saranno utilizzati per estendere il Sia anche alle Regioni del centro- nord a fine anno. A questo centinaio di milioni si aggiungeranno i 40 milioni già stanziati per ciascun anno di qui al 2016. In questo modo negli ultimi mesi del 2014 avremo per la prima volta nel nostro Paese una misura omogenea di contrasto alla povertà su tutto il territorio nazionale, e avremo anche completato il fabbisogno per tutto il 2015. Certo, si tratta ancora di una sperimentazione, nel senso che non è una misura stabile. In più è un sostegno mirato a una tipologia specifica di famiglie. Comunque è il primo passo per allargare poi i servizi offerti».
In che modo lo Stato si garantisce contro gli abusi di chi utilizza i servizi a cui non avrebbe diritto, lasciando magari scoperti quelli che hanno più bisogno? «Questo rischio è stata la ragione per cui per molti anni l’Italia non è andata avanti per lunghi anni. Ricordo che la misura di sostegno all’inclusione attiva si avvale del nuovo Isee (indicatore del- la situazione economica equivalente, ndr), che è molto più in grado di prevenire le false dichiarazioni».
Purtroppo i casi sono molti.
«Infatti. Spesso anche sui redditi non coincidono i dati Isee con quelli dell’Agenzia delle entrate».
In che modo si evitano gli abusi? «Prima di tutto perché i dati che già sono in possesso dell’amministrazione non vengono più richiesti ai cittadini, ma forniti dagli stessi uffici. Poi c’è anche l’indicazione del patrimonio immobiliare e mobiliare. Ma a parte i dati economici, c’è da aggiungere che questa misura prevede la presa in carico delle famiglie da parte del servizio sociale. Le persone vengono seguite individualmente e aiutate a trovare un percorso di inclusione, e non possono re- stare per sempre all’interno del servizio d’assistenza. Infine, nell’Isee esistono anche altri indicatori per controllare la veridicità della dichiarazione, come ad esempio la presenza di beni di lusso».
L’Unità 28.01.14