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"Tutte le storie appartengono a tutti perché nessuna vada perduta…", di Manuela Ghizzoni

Qualche ora fa si è conclusa, nell’aula di Montecitorio, la celebrazione della Giornata della Memoria. Forse anche per la complicità dei troppi seggi vuoti nei settori che stanno di fronte a quelli del PD (un vuoto che trasmette inevitabilmente un senso di trascuratezza e disattenzione), ma gli interventi mi sono parsi di maniera. Non potrei dire “sbagliati” (e non a caso uso questo termine), ma di certo non convincenti, come sono le parole pronunciate per dovere. Eppure di cose ce ne sarebbero da dire!
Nel dibattito pubblico si sta imponendo, ad esempio, la riflessione sul rischio che la retorica si impossessi della Giornata della Memoria, sterilizzandone gli obiettivi isititutivi; allo stesso tempo, è discussione attuale la preoccupazione per il “travisamento” del senso della Giornata: Elena Loewenthal, da ultima, ci impone di riflettere sul fatto che la GdM non può essere un risarcimento alla vittime della Shoah – peraltro impossibile e impensabile poichè la Shoah NON è risalcibile – ma lo spunto per praticare un esercizio critico profondo, per comprendere come e perchè l’Europa da culla del diritto sia diventata sede in Terra dell’inferno. Primo Levi diceva che “… alla fine del fascismo, è il lager…”: parole pronunciate con la preoccupazione che la mancata conoscenza e comprensione dei fenomeni possa permettere all’Europa (ricordate quanto accaduto, di recente, dopo la dissoluzione della Yugoslavia?) di tornare a partorire l’annientamento di massa per questioni razziali, politiche, religiose. Un insegnamento che è ancora vivo e attuale.
E poi c’è un tema che dobbiamo affrontare, imposto dalla biologia umana: come fare memoria dopo la scomparsa dei testimoni? E’ un tema difficile, ma non più differibile.
Jorge Semprun, nel suo “Il grande viaggio” se lo domandava con passo poetico (che cito a memoria…): come si può raccontare “il calore di una carezza sulla spalla, l’asprezza del limone, la morbidezza della lana…”? Già, è possibile raccontare questa esperienza? Ma, soprattutto, si può affidare una esperienza a chi non l’ha vissuta affinchè si faccia a sua volta testimone?
Prova a dare una risposta Monika Held, autrice tedesca che ci regala un’opera preziosa, che restituisce con straordinaria umanità e capacità narrativa l’esperienza della sopravvivenza al campo di sterminio. Al protagonista, Heiner Rosseck, in occasione della testimonianza resa al processo Auschwitz fa affermare che tra “l’immaginazione dei giudici e la mia esterienza non ci sono punti di contatto” (anche qui cito a memoria, pertanto chiedo venia per eventuali errori). Un giudizio inappellabile. Che rende(rebbe) la nostra riflessione sulla testimonianza dopo la scomparsa dei testimoni impossibile da svolgere.
Ma è sempre la Held, che prova a dare una risposta, positiva. Eccola: “Quella sera Lena fece una scoperta che la irritò. Le storie che raccontavano gli amici di Heiner iniziavano a sfrangiarsi, erano sul punto di staccarsi dalle persone a cui appartenevano, si mescolavano e si completavano a vicenda. Un giorno zia Zofia avrebbe fatto parte della storia di Stan, che nemmeno conosceva Zofia, ma sarebbe stato convinto di essere stato presente quando l’avevano fustigata. Un giorno Heiner avrebbe raccontato del bunker della fame come se ci fosse stato lui e Leszek dell’albero parlante come se sul ramo scricchiolante ci si fosse seduto lui a urlare al cielo il suo numero e non Mietek. Era un furto? Oppure tutte le storie appartenevano a tutti perché nessuna andasse perduta?”

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