Era largamente prevedibile che il progetto di nuova legge elettorale presentato alla Camera dopo l’accordo tra Renzi e Berlusconi suscitasse polemiche e critiche. Come è giusto che il Parlamento rivendichi il diritto non solo di discuterlo senza imposizioni censorie, ma anche di approvare tutte quelle modifiche che possano migliorarne l’efficacia per garantire sia l’osservanza della Costituzione, sia il rispetto degli obiettivi.
Quelli di governabilità del sistema e di rappresentanza della volontà popolare.
Era anche prevedibile, forse, che sul testo, peraltro ancora non del tutto definito, si scatenasse una curiosa fiera della vanità ferita, tra ostinate invidie accademiche di star della politologia e rivendicazioni di primogenitura politica che risalgono a convegni colpevolmente perduti nella memoria. Non era davvero prevedibile, invece, che la Corte Costituzionale, dopo quasi dieci anni di silenzio sull’esecrato porcellum, si sia così innamorata del ruolo politico assunto attraverso la sentenza con la quale lo ha finalmente condannato, da esercitarlo addirittura preventivamente. Così da lasciar filtrare, certo in forma anonima, ma con assolute garanzie di autenticità e di larga condivisione, giudizi critici su una legge non solo non promulgata, ma addirittura ai primissimi passi del suo iter legislativo.
A pensarci bene, lo stupore deriva solo dall’ingenuità di chi ancora si attardi su quelle distinzioni di funzioni e su quella indipendenza dei poteri, previste nei sacri testi delle democrazie liberali, ma ormai retaggi culturali e pruderie di antichi cerimoniali da cui rifuggire nella nostra confusa Repubblica d’oggi. Ed è naturale che quando si imbocchi una scorciatoia promettente, rispetto a una più faticosa e oscura, il fresco entusiasmo rischi di far correre verso il precipizio.
Se la Consulta si fosse limitata allo scrupoloso rispetto dei limiti delle sue funzioni, senza indulgere al desiderio di essere applaudita da tutti gli italiani per la condanna di una legge odiosa e alla volontà di aiutare le forze politiche a cambiarla, ora non sarebbe costretta ad affannose e non richieste precisazioni sul dispositivo della sentenza. Non ci sarebbe la necessità di chiarire che il riferimento al sistema elettorale spagnolo, notoriamente senza preferenze, non significa una patente di costituzionalità a una legge che, in Italia, non le preveda. Con la risibile giustificazione che il richiamo alla norma iberica, in un dispositivo così meditato da richiedere settimane per essere reso noto, era solamente dovuto alla volontà di dimostrare che, nel mondo, esistono leggi elettorali di diverso tenore. Non ci sarebbe l’opportunità di raccomandare, sempre informalmente è ovvio, soglie di premi di maggioranza più alte. Non ci sarebbe la volontà di far conoscere e di far pesare, con un certo gusto intimidatorio, la larga maggioranza che queste opinioni raccoglierebbero tra i giudici della Corte. Insomma, di invadere, per di più in anticipo, campi che sono di esclusiva competenza prima del Parlamento e, poi, di un Presidente della Repubblica che si è sempre dimostrato molto attento alla osservanza dei suoi compiti, tra cui, fondamentale, quello di far rispettare la Costituzione. In quel testo, sempre lodato con troppa ipocrisia e sempre trascurato quando fa comodo, non sono previste consulenze, ufficiali o ufficiose, da parte dei giudici a politici così maldestri da combinare, se lasciati soli, guai irreparabili. Le balie non vengono invocate neanche nelle latitanze più irriducibili di latte materno, figuriamoci tra senatori e deputati per cui è prevista la maggiore età.
Può essere, naturalmente, che le critiche alla mancanza di almeno una preferenza o ai limiti troppo bassi per ottenere il premio di maggioranza siano condivisibili. Può essere che i parlamentari modifichino, su questi punti, un testo che effettivamente corre rischi di costituzionalità. Può essere che il dibattito politico, quello tra gli accademici e tra i commentatori su giornali, sulle tv e nella rete illumini le menti dei legislatori. Ma come sarebbe bello se coloro che sono investiti di altissime responsabilità istituzionali osservassero un rigido silenzio sulle intenzioni altrui. A sbagliare bastano i politici. Non è il caso che lo facciano anche i supremi giudici.
La Stampa 24.01.14