Immaginate di essere turisti a Roma, di andare in un bel ristorante, magari da ‘Zio Ciro’, vicino piazza Navona. Un ristorante che ha una buona presentazione sul web e una buona reputazione culinaria. E poi immaginate nel pomeriggio di entrare in una gelateria, magari proprio da ‘Ciucculà’, vicino al Pantheon. E infine, di andare a riposare prendendo in affitto una camera a Piazza di Spagna, nel cuore più prestigioso della capitale. Immaginate di andare proprio lì, al numero 33, e di usufruire dei servizi dalla società ‘Spagna Suite’ (poi ceduta). Ecco, in ogni vostro singolo passaggio, avreste avuto a che fare con capitali di camorra.
Non ve ne sareste accorti, perché le persone che avrete incontrato in tutte queste attività sono lavoratori perbene, e loro stessi (in molti casi) non immaginano chi siano i loro superiori.
Oppure il vostro percorso avrebbe potuto essere diverso. Potreste aver scelto una pizzeria, sempre della catena Zio Ciro, ma questa volta a Sant’Apollinare, magari proprio dopo aver visitato la chiesa. Oppure una vecchia osteria, «L’Osteria della vite» o il ristorante «Il pizzicotto» in via Gioacchino Belli. E dopo, un caffè al bar «Sweet» di piazza della Cancelleria. Anche questo secondo itinerario vi avrebbe portato, involontariamente, a entrare nell’economia del sistema camorra.
Ma l’elenco è sterminato e sterminate sono le combinazioni
che testimoniano quanto la camorra sia entrata a far parte della nostra vita quotidiana, una vita fatta di gesti usuali (mangiare una pizza, bere un caffè, prendere in affitto una stanza) ai quali non prestiamo più attenzione. Gesti che consideri sicuri, che credi non potrebbero metterti in connessione con i più potenti poteri criminali. Locali in via Giulio Cesare, in via Fabio Massimo, in via Mameli, e poi in via Rasella, in via delle Quattro Fontane, in via della Pace, in via di Propaganda, in via del Boschetto. Pizzerie, bar, ristoranti, camere in affitto, e poi società sportive. È l’impero dei clan a Roma. O meglio, è la parte dell’impero dei clan che ora conosciamo. Ed è solo una piccola
parte.
E Roma non è un punto d’arrivo: i recenti sequestri hanno interessato anche Viareggio — dove i clan avevano messo le mani su uno dei luoghi più noti della città, l’ex bar-pasticceria «Fappani » — e poi a Pisa, su «L’arciere » e «l’Antico Vicoletto». E poi ancora sul ristorante «Salustri» di San Giuliano Terme e «L’imbarcadero » di Marina di Pisa. E poi nelle Marche, a Gabicce Mare, il caffè «Vittoria». Tutti questi sono locali considerati dalle Dda di Roma e di Napoli, coordinate dalla Dna, «lavanderie» della camorra, frutto del riciclaggio. Ricchezza che proviene dalla cocaina,
dall’hashish, dalle estorsioni, dalla contraffazione di capi d’abbigliamento griffati.
Non è semplice riciclaggio. Non è semplice lavanderia. Questo è un vero e proprio sistema che assiste l’economia legale. Il riciclaggio classico, quello che conosciamo, usa le attività commerciali più disparate, spesso sofferenti, per pulire danaro. Qui, invece, si tratta di marchi, di vero e proprio franchising. «Zio Ciro» e «Sugo», per esempio, secondo la Dna vengono assistiti dal capitale criminale. Laddove ci sono vuoti dovuti alla crisi o a insuccessi imprenditoriali, arrivano i capitali sporchi a sostenere le attività. È una nuova forma di investimento mafioso, una declinazione specifica del riciclaggio. È come se una società potesse godere di un livello «pulito», che si relaziona alla clientela e al mercato seguendo le leggi dello Stato in cui opera, e di un livello «ombra», che arriva in soccorso del primo quando bisogna rilanciare un prodotto, quando bisogna espandersi sul mercato o battere la concorrenza.
Quindi non solo più ripulitura, fatture false, scontrini fittizi. No. Investimenti veri e propri che rendono i clan le stampelle delle economie sofferenti, delle economie piegate dalla crisi. A questo nuovo tipo di riciclaggio non si è ancora pronti. L’Europa non è pronta. Sono moltissime le catene di ristorazione e di distribuzione che d’improvviso aprono filiali in decine di paesi nel mondo. Aprono senza che sia razionalmente possibile giustificare tali exploit, tanto è difficile cogliere e tracciare i loro movimenti sul mercato. E non ci sono leggi e regole che permettono di scoprire l’origine del danaro di questi grandi gruppi. Le loro società si perdono tra Andorra e Lussemburgo, tra Lichtenstein e le Cayman, ma anche a Londra e Berlino. I paesi dove aprono società le organizzazioni e versano i loro capitali sono sempre di più nel nord Europa. Scoprirle è divenuto quasi impossibile.
In questo caso specifico gli inquirenti sono riusciti a scoprire la borghesia criminale camorrista. Il ruolo del clan Contini, la base a Napoli, a San Carlo all’Arena un’organizzazione potente guidata dal boss Eduardo Contini “o’ romano”, ossessionato dall’eleganza ma anche da una gestione diplomatica degli affari. Interessato a un narcotraffico che non inficiasse troppo il territorio (nota la sua opposizione al kobret e la sua volontà di spostare tutta la vendita di droghe su Roma e nel Lazio) sopravvissuto a tutte le faide di camorra, era entrato nella dirigenza del cartello di Secondigliano per via matrimoniale. Le sorelle Aieta sposarono tre camorristi che divennero poi dirigenti dei cartelli dell’area Nord. Maria sposò Contini, Rita sposò Patrizio Bosti e Anna sposò Francesco Mallardo. Tre capi storici. Tre uomini di camorra interessati a Roma.
La famiglia che su Roma diventa interfaccia dei clan sono i Righi. Proprio monitorando le attività dei fratelli Righi — Salvatore, Luigi e Antonio, veri e propri sovrani della ristorazione — gli inquirenti sono riusciti nella difficilissima individuazione dei percorsi di riciclaggio. I fratelli Righi — secondo le accuse delle Procure Antimafia di Roma e Napoli — diventerebbero riferimento dei capitali del clan Contini, ma anche del clan Mazzarella e Amato-Pagano. Non avrebbero agito garantendo l’esclusiva a un unico «committente”. I clan davano il danaro, e loro sapevano come farlo fruttare. E bene.
Quando i Righi rivogliono dal broker Luca Sprovieri i soldi liquidi che questi aveva ricevuto per investire nella finanza in Svizzera (e del quale, secondo gli stessi Righi, si era impossessato), si rivolgono a Oreste Fido. Un camorrista che — secondo le accuse — gli risolve tutti i problemi di questo genere. In cambio, i Righi assumono suo nipote in un ristorante, prendono parte a sue società. Grazie a questa alleanza con gli imprenditori principi di Roma, Fido vuole fare concorrenza al potere degli Scissionisti. I Righi garantiscono con le banche, gli fanno avere fideiussioni per consentirgli di ottenere finanziamenti volti ad avviare alcune attività commerciali nel settore delle calzature (dove a fianco a prodotti veri ci sono prodotti falsi, così da poter vendere scarpe note a prezzi bassissimi) e nel settore delle polizze assicurative Rc-auto. I Righi — esponendosi moltissimo — si legano ad un camorrista per avere vantaggi sul ritorno crediti e entrature dirette nei clan. Il loro errore è stato aver mischiato i livelli.
I cartelli criminali lo sanno. Chi crea danaro deve sporcarsi con la droga e fare morti. Vivere in latitanza e in carcere. Ma poi c’è il livello economico, ossia gli investitori che non c’entrano né con il sangue né con il narcotraffico. E poi c’è il livello politico, che più è lontano dal segmento militare più avrà garanzie. Ad ogni livello il suo compito. Ecco la difficoltà di ricostruire la filiera. Negli anni passati non era così. La vicinanza e promiscuità tra mafioso e commerciante erano assai più contorte.
Comunque, quando il broker Sprovieri deve spiegare a Luigi
Severgnini chi sono i Righi, consigliandogli di non mettersi in affari con loro, ecco cosa dice: «SPROVIERI Luca: io spero. …. spero anche che mi dia i documenti perché lui ha promesso di darmi….. di restituirmi i documenti…..
SEVERGNINI Luigi: no ascolta…. Luca ti posso dire una cosa….. non fanno i ladri di lavoro SPROVIERI Luca: no, fanno peggio SEVERGNINI Luigi: no, non fanno neanche peggio SPROVIERI Luca: si fanno peggio SEVERGNINI Luigi: è il finale, hai capito? È proprio il finale, cioè è il finale, di tutto! questo non me lo ha detto….. come si chiama…..
SPROVIERI Luca: no, no, fanno anche peggio SEVERGNINI Luigi: Antonio Righi SPROVIERI Luca: fanno anche peggio, fanno anche peggio SEVERGNINI Luigi: questo non lo so, però mi han detto senti Luigi, questi non è che fanno i mariuoli, questi che sono qua a Napoli, questi sono il finale, raccolgono tutto ciò che fanno gli altri…… eh! Luca per favore……. «.
Non “mariuoli”, ma sono “il finale”. Ecco una nuova categoria che assumerà nel tempo un vero e proprio ruolo scientifico nell’analisi del riciclaggio. “Il finale”. I Righi sono il finale.
Immaginate cosa può accadere, immaginate cosa di fatto accade nell’Italia della crisi. Si presentano broker, commercia-listi, avvocati, offrono di diventare partner, offrono di diventare soci, portano soldi, enormi liquidità che significano sicurezza. E lentamente entrano, si insinuano, fino a impadronirsi di intere società. Le utilizzano per riciclare, ma poi sono abili ed economicamente forti e quindi sono anche buoni investimenti che nel tempo produrranno degli utili.
Così come è avvenuto in Veneto e in Lombardia, e come hanno dimostrato le inchieste Aspide e Crimine, sfruttano la disperazione di chi vede fallire il lavoro di una vita. Di chi immagina sul lastrico decine e decine di famiglie, quelle dei dipendenti che, se l’azienda fallisce, non avranno più di che vivere. Non è un’imposizione militare o un saccheggio estorsivo. Le porte le aprono — anzi, le spalancano — gli imprenditori che sperano di poter migliorare la loro condizione. Questo meccanismo è divenuto prassi.
La cosa più allarmante è che le nuove generazioni non negano l’esistenza della camorra, della ‘ndrangheta, di Cosa Nostra. Non dicono più, fatti salvi alcuni casi rari e patetici, che è tutta un’invenzione dei giornali o della televisione. La nuova omertà è rispondere, a chi dice che la nostra quotidianità è ormai nelle mani dei clan: «E allora? Sappiamo che esistono, lo sanno tutti». La nuova omertà è considerare fisiologica l’esistenza del potere criminale, percepirla come elemento scontato. Ecco, questa è la nuova omertà.
E persino la linea delle nuove generazioni di affiliati si accorda al sentire comune: «Se vuoi fare business, devi necessariamente non seguire le regole». Regole che sono percepite come ingiuste, inique, una rete dalle cui maglie si prova costantemente a sfuggire: non si può essere ricchi e potenti senza fare scorrettezze, questo è quanto si vuole costantemente suggerire. Questo è il veleno che, a piccole gocce, è stato versato nelle orecchie degli italiani. E certo non ci si augura di essere miserabili e sconfitti. Questo l’adagio che si ascolta sempre più spesso. La confusione di considerare tutti corrotti e tutti ugualmente schifosi, genera una sorta di territorio franco per le attività criminali.
L’analisi del potere criminale è opera certosina e attenta: quel che risulta evidente è che loro stessi vogliono essere confusi con quei «tutti» corrotti e schifosi, che nel peggiore dei casi, sono meno corrotti, criminali e schifosi di loro. La nuova omertà è il «si sa», è il «tutto è stato detto, scritto, indagato». È la banalizzazione di questa che è la nostra tragedia. Una tragedia che ci sta uccidendo giorno dopo giorno e di cui non ci rendiamo più conto. Di cui non ci accorgiamo più.
Prima regola, dunque, è non considerare fisiologico tutto questo. E la politica del contrasto alle mafie, sul piano economico, non sta facendo nulla. Nulla di nulla. E poco, pochissimo, sta facendo rispetto all’emergenza economica vera e propria. La politica deve intervenire e non fare più una generica assistenza. Non può permettersi più di attaccare solo «moralmente » le organizzazioni e di esprimere solidarietà a chi è a rischio. Tutto questo è corretto, ma non è sufficiente. Nel dibattito politico è scomparso il contrasto all’economia criminale.
Adesso questi locali che fine faranno? Tempo fa parlammo con don Luigi Ciotti del progetto di sottoporre all’opinione pubblica la scelta di far vendere le aziende controllate dalla criminalità organizzata e sottoposte a sequestro. Le aziende non devono morire quando vengono commissariate. Devono tornare alla legalità. Lo Stato deve essere più forte, deve essere attento, deve monitorare affinché non le ricomprino le stesse organizzazioni criminali. I beni immobili devono essere dati alle associazioni, come in effetti avviene. Ma le aziende, i negozi, devono ritornare nel mercato e nella legalità. Non solo. Bisogna comprendere che in questo momento, sia in Italia che in Europa, la politica sta facendo troppo poco per evitare l’infiltrazione dei capitali criminali nell’economia reale. Per ogni imprenditore in crisi c’è un cartello pronto a rilevare la sua azienda. Per ogni evasore c’è un broker pronto a dargli possibilità di rivestimento di quel danaro. Per ogni azienda legale che assume regolarmente c’è una concorrente che vince utilizzando capitale narcotrafficante. E in tutto questo le banche (basta vedere i conti correnti dei Righi per averne conferma) sono spesso silenziose conniventi.
O la legalità diventa conveniente o assisteremo sempre più spesso al dramma di tanti imprenditori che, per continuare ad essere “sani”, finiranno sconfitti. Questo è il macro-tema del momento. Chiediamo a questo governo e alle opposizioni di affrontarlo immediatamente. Non c’è più tempo. Non bastano più solidarietà e antimafia morale. Fatti, regole, leggi: c’è bisogno di mettere mano a tutto questo. Subito. O sarà tardi. Troppo tardi.
La Repubblica 24.01.14