Da tempo si dice che così non si può andare avanti. Perché di parlamenti con due Camere ce ne sono parecchi nell’Unione europea: 13 su 28 (in tutti i paesi più grandi: da Germania e Francia a Romania e Polonia): ma il bicameralismo degli altri 12 non è come il nostro. Solo da noi sia una che l’altra Camera hanno uguale potere di fare e disfare i governi (in Germania, Francia, Spagna, Regno Unito ecc. i governi possono nascere e cadere esclusivamente in uno soltanto dei rami del Parlamento).
Per giunta, solo da noi vi è una differenza abissale di età tra chi può votare alla Camera (18 anni) e chi lo può al Senato (25 anni). Sette anni di differenza possono provocare una naturale asimmetria di risultati fra una Camera e l’altra.
Ma non basta. Solo da noi è differente persino il calcolo dei voti tra le due Camere. L’astensionismo significa voto contrario al Senato mentre alla Camera, più comprensibilmente, l’astensione non influisce sul risultato. In questo modo, anche in presenza di una identica situazione politica di votanti e astenuti, un governo, promosso alla Camera, può cadere al Senato (la Corte costituzionale con la più pilatesca delle sue sentenze, nel 1984, ha detto che andava bene così, dato che tutt’e due le interpretazioni erano possibili, legittimando l’assurdo).
Ancora: solo da noi non vi è un qualche principio di ordine nella procedura legislativa. Non vi è infatti traccia di “commissioni di conciliazione” per mettere d’accordo sullo stesso testo le due Camere che hanno votato diversamente (come avviene al Parlamento europeo, nel confronto con il Consiglio, e in Belgio, in Francia, Germania, in Spagna e – fuori dall’Unione europea – in Svezia, Russia, Stati Uniti). E non vi è nessuna clausola di supremazia per fare prevalere alla fine, se non vi è conciliazione, la volontà della Camera che ha la più marcata legittimazione elettorale diretta (come avviene nei Paesi appena citati).
Vi è poi la questione dell’organizzazione interna. Personale di eccellenza unica, uscito da severe selezioni: ma spesso impiegato in servizi doppioni tra le due Camere. Fu un avvenimento quando il 12 febbraio 2007 furono «unificate» le grandi biblioteche di Camera e Senato. Ma era dal 24 aprile 1800 che la Library of Congress aveva indicato – anche per in bicameralismo forte e prestigioso come quello americano – che la messa in comune di tutti gli apparati di supporto legati alle funzioni di studio e documentazione dei parlamentari, non avrebbe ferito l’autonomia costituzionale di alcuna Camera.
Ma forse le vere ragioni di queste disfunzioni sono nel difetto che il Senato si porta dietro dalla nascita. In Costituzione sta scritto che deve essere «eletto a base regionale ». Che significa? Che le sue circoscrizioni elettorali devono rispecchiare la ripartizione in regioni? Certo. Ma non basta questo riferimento geografico. Leggendo gli atti della Costituente, si capisce che il Senato avrebbe soprattutto dovuto rappresentare, nella cornice regionale, la “complessiva struttura sociale”, le “forze vive” della Nazione, le tensioni vitali e culturali della intricata società italiana. Per tutti, Costantino Mortati accettò questa formula della Costituzione solo come indicazione di un contenitore. Ma, dentro di questo, il Senato avrebbe dovuto esprimere il contro-potere delle “piccole comunità di vita” di fronte alla forza invasiva, altrimenti rappresentata, dalla “volontà generale”.
Secondo l’intelligenza delle origini, il Senato doveva essere perciò, allo stesso tempo, “garanzia” contro l’onnipotenza dell’altra Camera e “integrazione vitale” della sua rappresentanza politica. Con una delle sue fughe in avanti, la nostra Costituzione si distaccava così da quei “senati” europei costruiti per esprimere gli interessi degli enti locali (con le elezioni indirette in Austria, in Francia, in Irlanda, in Spagna, in Olanda, in Slovenia e, addirittura, con la investitura “senatoriale”, nel Bundesrat, dei governi stessi dei Laender tedeschi).
Ma ora sembra che proprio a questi modelli tenda la radicale riforma che si farà qui da noi. Così i nostri governi e consigli regionali, che sono ora purtroppo al punto più basso della loro credibilità politica e funzionale, costituiranno – direttamente e indirettamente – l’altro ramo del Parlamento. È certo nel giusto chi pensa che senza cambiamenti, non si possa più andare avanti così. E anche una severa riflessione si impone per mettere un freno alto alla proliferazione senza soste del nostro personale politico. Se si pensa che in Germania il loro Bundesrat è solo di 69 membri, mentre solo 100 ne ha il Senato degli Stati Uniti… Ma forse a certi risultati di economia istituzionale si può ugualmente giungere bilanciandoli con altri interessi costituzionali. Siamo sicuri che un Senato espressione di mandarinati regionali sarebbe capace di dar voce ai problematici mondi vitali e culturali dell’Italia profonda? Nel 1913 gli Stati Uniti fecero un cammino inverso. Le degenerazioni delle elezioni di secondo grado dei senatori da parte delle assemblee legislative degli Stati membri, provocarono il XVII emendamento della Costituzione. I due senatori per Stato vennero allora eletti direttamente: con immediato vantaggio per gli Stati dell’Unione e per il Senato degli Stati Uniti.
Insomma, è vero che non si può andare avanti così. Ma prima di sostituire il Senato con un non-Senato bisogna stare attenti ad aggiustare le cose storte senza perdere di vista l’equilibrio del sistema tutto intero.
LA Repubblica 23.01.14