Il caos che ieri ha accompagnato la presentazione del testo della riforma elettorale non deve necessariamente impressionare. Era prevedibile e in qualche modo logico che una legge nata da un accordo che avrebbe dovuto cancellare, e solo successivamente s’è risolto a ridimensionare, i partiti minori, generasse una reazione così forte degli stessi.
Il fronte del No che ha accolto con una levata di scudi l’inizio dell’iter parlamentare della riforma si presenta pertanto variegato, ma anche accomunato dallo spirito di sopravvivenza. Questo, e solo questo, ha potuto riunire Monti e Casini, ormai separati da tempo, con Bossi e Vendola, due leader che a malapena si salutano quando si incontrano alla Camera. Che poi l’inedita alleanza possa attirare nelle sue file, come qualcuno si spinge a dire nei corridoi di Montecitorio, anche D’Alema e la minoranza dalemian-bersanian-cuperliana del Pd e il Nuovo centrodestra di Alfano, è tutto da vedere. Sarebbe una sorpresa non di poco conto, per una ragione molto semplice: mentre infatti il primo gruppo di oppositori appartiene alla schiera di quelli che sono stati colti di sorpresa dall’accordo tra Renzi e Berlusconi, il secondo fa parte di diritto dei partiti che hanno partecipato alla trattativa e siglato l’accordo.
Per tutti era fin troppo chiaro che l’intesa siglata tra il leader del maggior partito di governo e quello del maggior partito d’opposizione aveva come primo obiettivo sbloccare il percorso riformatore dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il Porcellum; e come secondo, dare al governo una prospettiva meno incerta di quella attuale e un orizzonte di almeno un anno per poter lavorare in tranquillità. La prima e la seconda parte dell’accordo sono state esplicite, pubbliche e trasparenti fin dal primo momento. Berlusconi non aveva ancora girato l’angolo della sede del Pd al Nazareno, sabato scorso, che Renzi le illustrava soddisfatto in una conferenza stampa.
Se quelle a cui si è assistito ieri per l’intera giornata non fossero ragionevoli difficoltà da affrontare e risolvere, senza stravolgere l’impianto della riforma, e dovessero invece rivelarsi come fuoco di sbarramento o come inizio di una manovra ostruzionistica, simili a quelle a cui si assistette al Senato nell’ultima parte della precedente legislatura e nella prima parte di questa, le conseguenze diventerebbero gravi. Perché, è evidente, se vacilla o s’impantana la prima parte dell’accordo, cade immediatamente anche la seconda, come Renzi ha ripetuto dal primo momento. E l’obiettivo del premier Letta di chiudere rapidamente la trattativa sul patto di governo e andare al più presto a illustrarlo in Europa andrebbe necessariamente incontro a forti difficoltà.
L’idea che il Parlamento non possa introdurre alcuna modifica a un testo blindato, ovviamente, è irreale. Ma lo è altrettanto l’ipotesi di smontare pezzo per pezzo il nuovo sistema elettorale a colpi di emendamenti votati da maggioranze parlamentari occasionali e trasversali, che finirebbero per snaturarne l’impianto. Il quale impianto, lo hanno detto espressamente i due maggiori contraenti dell’accordo, punta a ricostruire il bipolarismo messo in crisi dagli ultimi risultati elettorali e dall’irruzione in Parlamento del Movimento 5 Stelle. In nome di quest’obiettivo ognuno ha ottenuto e ha dovuto rinunciare a qualcosa: Berlusconi ha accettato il doppio turno, che non gli era mai piaciuto, e ha avuto l’innalzamento della soglia di sbarramento al 5 per cento. Renzi ha messo da parte le preferenze, ma ha portato a casa il sì, non solo alla riforma elettorale, ma anche a quelle istituzionali. Alfano ha incassato la cancellazione del sistema spagnolo, che tendeva a ridurre il quadro a due soli partiti, e insieme a Letta ha ricevuto assicurazioni sulle prospettive del governo.
Dubbi, riserve, mugugni sono emersi un po’ da tutte le parti, e principalmente nel Pd, come s’è visto a conclusione della direzione terminata con le dimissioni del presidente Gianni Cuperlo. Ma da qui a rimettere in discussione la riforma, ce ne corre. Ci sono tutti gli elementi per chiarire, approfondire, limare, senza cercare di capovolgerlo, un testo di legge che non riguarda solo la materia elettorale, ma anche un’occasione, forse l’ultima, di uscire dall’inerzia di una transizione infinita a cui l’Italia è condannata da vent’anni.
La Stampa 23.01.14