Anticipiamo un capitolo del libro di Patrick Fogli «Dovrei essere fumo». La storia di Emile, giovane ebreo nato a Parigi, e quella di Alberto ex agente dei servizi segreti, si incrociano del tutto casualmente.
Sono nato il 25 luglio del 1921, mi chiamo Emile Riemann e sono ebreo. Ebrei mio padre e mia madre, ebrei i loro genitori e così indietro per chissà quante generazioni. Sono nato a Parigi e sono francese, mia madre era italiana e i genitori dei miei nonni erano emigrati molti anni prima dalla Galizia, una regione a metà fra Polonia e Russia, finita nell’impero austroungarico e poi di nuovo alla Polonia. Oggi, per quanto ne so, una metà dovrebbe essere Ucraina.
Tutto questo per dire che la mia nazionalità è un accidente della storia, come in fondo, anche la mia vita. Italiano e francese sono le mie lingue madre, non le uniche che conosco, e tutto il mescolarsi di vocaboli diversi che ha attraversato la mia giovinezza mi ha consentito, in qualche modo, di poter sopravvivere. Nulla si crea, tutto si trasforma, ne sono la prova vivente.
Abitavo con i miei genitori, avevamo una bella casa e abbastanza soldi per garantirci una vita tranquilla. Mio padre gestiva l’impresa di famiglia, una fabbrica di scarpe ereditata da suo nonno e piuttosto conosciuta a quei tempi, mia madre si occupava di me e di mio fratello François, più piccolo di dieci anni. Non ricordo con esattezza quando cominciammo ad avere paura e, se ci ripenso, mi viene ancora più difficile ricordarlo. Sotto forme diverse, la paura è stata una compagna fedele di tutta la mia vita, ma se devo mettere un punto di inizio alla storia che ti sto raccontando, allora è la fine del 1939.
Avevo diciassette anni e studiavo in un collegio di Parigi, lo stesso che aveva ospitato mio padre e suo padre prima di lui. Tre pomeriggi alla settimana il signor Rivière veniva a casa nostra per darmi lezione di tedesco e inglese. Due lingue che odiavo, con la feroce costanza con cui a quell’età si può odiare tutto ciò che ti distrae dalle cose che vuoi fare davvero.
Un pomeriggio il mio precettore mancò all’appuntamento.
Mia madre spiegò che non sarebbe più venuto, aveva dei problemi di famiglia e avrebbero cercato un sostituto. Capii che mi aveva mentito quando se ne andò anche Claudette, la governante che lavorava da noi da prima che nascessi. Mancavano pochi giorni alla fine dell’anno e festeggiare era solo un modo semplice per immaginare che il mondo camminasse ancora sulla stessa strada.
La guerra era cominciata a settembre, ancora non era chiaro che piega avrebbe preso. O almeno non era chiaro per me. Hitler aveva conquistato la Polonia in poco tempo, l’Austria era già stata annessa da un anno e così la Cecoslovacchia. Noi eravamo rimasti a guardare, la Francia, il più grande esercito del mondo, e non riuscivo a spiegarmi il motivo. Pensavo comunque che la nostra forza militare ci tenesse al sicuro, lontani dai nazisti e da tutto quello che si raccontava stesse accadendo agli ebrei nei territori annessi. Sapevamo pochissimo con certezza e potrà sembrare strano oggi, ma allora non c’erano che giornali e radio.
Proprio ora che scrivo, dalla televisione che ho lasciato accesa, sento qualcuno blaterare di censura, un termine che mi fa sorridere, se penso allo stato d’animo di allora. In Germania l’unica voce ammessa era il Partito Nazionalsocialista, le informazioni che arrivavano erano di terza o quarta mano e assumevano spesso, per molti di noi, il tono della leggenda.
Pochi giorni dopo la partenza di Claudette, mio padre mi disse che stava cercando di vendere l’azienda. Con il ricavato saremmo andati in America, al di là dell’oceano, dove la guerra non avrebbe mai potuto raggiungerci. Siamo una famiglia abituata a cambiare nazione, lingue, luogo in cui vivere, mi disse, sapremo ricominciare in un posto nuovo. Dovevamo risparmiare più denaro possibile, il viaggio era lungo e costoso e il ricavato della vendita avrebbe dovuto garantire la nostra esistenza futura. Mi chiese di parlare del progetto con Sara, se lo volevo e lo voleva lei, avrebbe potuto venire con noi insieme a sua madre.
«Dille che non si preoccupi per i soldi» aggiunse e non fece che aumentare la mia confusione. Sara era la mia ragazza. Un fidanzamento annunciato in casa da almeno un anno. La amavo, non c’è altro da dire e forse ti sembrerà strano o crudele, con quello che è accaduto, ma non ho mai smesso.
Viveva con sua madre, suo padre era morto un anno prima, di una brutta polmonite. Non se la passavano male, ma non avrebbero mai potuto affrontare le spese del trasferimento e mio padre lo sapeva.
Prima di parlare con lei, però, chiesi a mia madre le spiegazioni che non potevo chiedere al babbo, anche fornite. Immagino che il mio sguardo rivelasse alla perfezione lo stato d’animo, mia madre mi venne incontro chiedendomi se mi sentivo male.
«Ho parlato con papà» dissi soltanto e lei mi invitò a sedermi sul divano.
«Tuo padre pensa che arriveranno tempi molto tristi» disse. «La guerra potrebbe arrivare fino a noi. E sarebbe una disgrazia insuperabile.»
Non capivo, cercai di spiegarle che i tedeschi non sarebbero mai riusciti a battere il nostro esercito, ma lei mi interruppe.
«Sai quello che si dice in giro su quello che accade in Germania, non è vero? Sono voci, notizie confuse, ma tuo padre non vuole correre il rischio che siano vere. Quando finirà la guerra, ritorneremo a Parigi, se lo vorremo ancora. Tutti insieme. Io, tuo padre, tuo fratello, tu, Sara e i vostri figli, se ne avrete avuti.»
Ero disorientato, stranito, non sapevo cosa pensare.
Uscii di casa veloce come un gatto e andai da Sara. Le dissi del progetto di mio padre, di quello che mi aveva detto, parlai con sua madre, cercai di non offendere il suo orgoglio, di fare in modo che la nostra offerta non sembrasse carità, ma un aiuto a tempo determinato che ci avrebbe restituito col tempo, quando avrebbe potuto. Alla fine accettò, aveva appena vissuto un’altra guerra, erano rimaste sole.
L’Unità 23.01.14