Nel commentare un compromesso politico, come quello raggiunto tra Renzi e Berlusconi sulle riforme istituzionali e poi ratificato dalla direzione nazionale del Pd, ci sono due errori da evitare. Il primo è quello di paragonare il risultato a qualche sistema ideale che non ha nessuna possibilità di essere approvato, dati i rapporti di forza in campo. Il secondo è quello di sostenere che non si può criticare il compromesso perché è l’unico ipotizzabile. Per la serie, mangia la minestra o salta dalla finestra. Entrambi gli estremismi sono fuorvianti.
Come valutare, allora, il compromesso raggiunto intorno a un sistema proporzionale con premio di maggioranza a due turni e clausole di sbarramento abbastanza alte (5% per i partiti coalizzati e 8% per quelli che corrono da soli)? In attesa di conoscere la traduzione dell’accordo in legge, si può azzardare una valutazione rispetto a quattro obiettivi: 1) affiancare alla riforma elettorale una semplificazione del quadro istituzionale che ne aumenti l’efficienza; 2) garantire una maggioranza certa; 3) ridurre la frammentazione; 4) migliorare la selezione dei politici.
Anche se esistevano sistemi più collaudati e coerenti per raggiungere questi obiettivi, il compro- messo appare accettabile. È di gran lunga migliore sia del Porcellum sia dello status quo creato dalla sentenza della Corte Costituzionale. Se si supererà il bicameralismo paritario e il Senato elettivo, e se si semplificherà il federalismo regionale archiviando la competenza concorrente su alcune materie, le nostre istituzioni ne guadagneranno in efficienza.
Rispetto all’obiettivo della governabilità, il premio di maggioranza garantirà una maggioranza certa dopo il voto (eventualmente, dopo un secondo turno tra le prime due coalizioni qualora nessuna superi il 35% al primo). Certo, la soglia individuata per far scattare il premio appare bassa, sia rispetto alla sentenza della Corte sia rispetto alla logica di un sistema che prevede il doppio turno. Il 40%, a prima vista, è una scelta più coerente. Ma Renzi e Berlusconi hanno tutto l’interesse a difendere il 35%, perché gli fornisce un’arma in più qualora i piccoli partiti si mostrassero troppo esosi nelle loro richieste per coalizzarsi. Potrebbero sempre dirgli: attenzione, con una soglia così bassa avremmo qualche possibilità di vittoria anche senza di voi.
Rispetto all’obiettivo di ridurre la frammentazione, si è abbandonata l’ipotesi di usare piccoli collegi alla spagnola per ripartire i seggi tra i partiti. Il riparto avverrà a livello nazionale. Questa parte dell’accordo era l’unico modo per tenere in gioco il Nuovo Centro destra e salvaguardare la tenuta del governo. I partiti medio-piccoli tirano un sospiro di sollievo grazie ad Alfano. Gli effetti proporzionali del riparto nazionale, tuttavia, sono attenutati dalle clausole di sbarramento. Se non si tornerà indietro rispetto al 5% e all’8%, la frammentazione sarà ridotta ugualmente, con un numero di partiti rappresentati in Parlamento che credibilmente oscillerà tra 3 a 6. Anche se le forze minori manterranno un qual-he potere d’interdizione per entrare in coalizione.
Il quarto obiettivo, quello di migliorare la selezione dei politici, è il punto meno convincente. Ma qui si può ancora fare meglio, senza mettere in discussione la filosofia del compromesso. Renzi ha insistito molto sulla vicinanza, non solo linguistica, tra collegi uninominali e plurinominali. Ma i 118 collegi di cui si parla per eleggere 630 deputati tanto piccoli non sono: in media, gli elettori si troveranno 5 o 6 nomi in lista, anche di più nei collegi maggiori. E i nominati nelle prime posizioni passeranno indipendentemente dalle scelte degli elettori. Le primarie per legge sono solo un diversivo: l’esperienza della Toscana dimostra che non sono la panacea. Adesso che l’ampiezza dei collegi non è più determinante per ripartire i seggi tra i partiti, si può fare di più. Serve uno scatto di fantasia «geografica» per disegnare almeno 160 collegi plurinominali (con candidati facilmente individuabili sul territorio) e molta trasparenza nel congegnare il meccanismo con cui i candidati vengono eletti all’interno di ogni partito. Lo so: argomenti potenzialmente soporiferi, ma su cui occorre vigilare.
C’è un ultimo elemento politico, infine, da ricordare. Se l’accordo sulle riforme reggerà, i destini del Pd e del governo saranno ancora più intrecciati. Difficile, per il Pd, risultare credibile di fronte agli elettori se il governo non porterà a casa niente nel pros- simo anno. Su questo punto, non ci sono dubbi che Renzi e Berlusconi dovranno fare scommesse di segno opposto.
L’Unità 22.01.14