Claudio Abbado incarnava un paradosso: era un monumento alla musica ma anche l’eterno ragazzo “Claudio”. Gli piaceva farsi chiamare così dai suoi musicisti (spesso giovanissimi), rigettando il titolo pomposo di “Maestro”. Era un simbolo, una leggenda. Ma era anche rigorosamente estraneo allo starsystem. Un re che non voleva stare in trono.Scomparso ieri a ottant’anni dopo una sofferta malattia, è stato uno dei massimi direttori d’orchestra del Novecento e un vessillo d’impegno e anti-divismo, sospinto da un’intensa vita spirituale che non contraddiceva la sua laicità razionalista. La morte lo accompagnava come un pensiero abituale: «Sarebbe impossibile», dichiarò una volta, «dirigere Mahler senza pensarci».
E rammentava il modo in cui morì Dimitri Mitropoulos, il maestro greco che nel 1960, alla Scala, fu fulminato da un infarto mentre provava la Terza Sinfonia mahleriana: «Sapeva che non sarebbe vissuto a lungo e me lo disse: aveva già avuto due attacchi di cuore. Ma preferiva andarsene velocemente piuttosto che smettere di dirigere. Lo capisco ».
La musica era la sua esistenza, il suo alimento e la chiave di comprensione della cultura tutta, come dimostrò nei bellissimi cicli interdisciplinari programmati alla Philharmonie di Berlino. Giunse a considerarla persino un antidoto alla malattia: nell’estate del 2000 fu operato per un cancro allo stomaco, subendo l’asportazione dell’organo, e pochi mesi dopo volle affrontare, magrissimo e vibrante, le maratone beethoveniane di Roma e Vienna (febbraio 2001) sul podio dei Berliner Philharmoniker. Sostenne in seguito che erano stati quei concerti a salvarlo. Nella sua prospettiva purista e totalizzante, la musica era anche coinvolgimento politico e civile, e riversò questa convinzione nel periodo milanese dei concerti nelle fabbriche, dell’apertura della Scala a studenti e a operai, delle proteste con l’amico Pollini contro la guerra in Vietnam e i colonnelli greci. Non solo: vedeva nella musica uno strumento umanitario efficacissimo, come testimoniò il suo sostegno entusiastico al “Sistema” di José Antonio Abreu, diffusore in Venezuela di una rete di scuole musicali per ragazzi salvati dal degrado e dalla criminalità dei barrios. Insomma la musica, nella concezione di Claudio, s’ergeva come norma armonica e criterio del convivere sociale, capacità di dialogare e ascoltarsi, territorio di libertà e rispetto. E anche in tal senso costituiva un modello supremo per i giovani, a cui si dedicò forgiando orchestre quali la European Community Youth Orchestra, la Gustav Mahler Jugendorchester e l’Orchestra Mozart, creata a Bologna nel 2004. Tra le sue “creature” spicca anche l’Orchestra del Festival di Lucerna, plasmata nel 2003 con elementi della Mahler Chamber Orchestra e alcune tra le migliori prime parti delle gloriose formazioni con cui aveva lavorato.
La musica fu il suo elemento fin da piccolo. Il padre Michelangelo era concertista di violino e insegnante al Conservatorio Verdi, mentre la madre, siciliana e scrittrice di racconti per l’infanzia (figlia di Guglielmo Savagnone, docente di papirologia a Palermo), era una donna appassionata e fantasiosa che durante la guerra aveva partecipato alla Resistenza. A dieci anni, dimostrando subito gusti raffinati, Claudio impazziva per Béla Bartòk, tanto da scrivere col gessetto «Viva Bartòk», a lettere cubitali, sul muro della sua casa di Via Fogazzaro a Milano. Era il ’43, e la Gestapo condusse indagini su quel nome misterioso: che Bartòk fosse un partigiano?
Diciottenne, quando suonava col gruppo da camera del padre,
sentito predire un futuro di successo da Toscanini, del quale aveva detestato i metodi violenti («alla Scala era durissimo con gli orchestrali, li chiamava “cani”»). Piuttosto il suo mito era Wilhelm Furtwaengler, assunto come riferimento per il repertorio austrotedesco. E da adulto meritò la guida (dal 1989 al 2002) della compagine eccelsa dei Berliner, proprio la stessa diretta da Furtwaengler. Fertili i suoi legami anche con la London Symphony Orchestra, che diresse dal ’79 all’88, e con l’orchestra della Scala, teatro che governò dal ’68 all’86. Furono tre i contributi più significativi del suo celebrato periodo scaligero: inviti a direttori di massimo prestigio (Kleiber, Mehta, Muti, Maazel, Ozawa, Barenboim, Solti, Karl Bohm), esplorazione del repertorio anche meno frequentato (dai classici del ventesimo secolo alla musica più attuale), slancio verso l’obiettivo di un teatro da ridefinire in modo aperto e anti-élitario.
Oltre a Berlino e a Milano, tra le “sue” città figura Vienna, dove studiò da giovane con Hans Swarowsky e guidò la Staatsoper (dall’86 al ’91). Nell’87 fu nominato Generalmusikdirektor della capitale austriaca, e l’anno dopo fondò l’innovativo festival Wien Modern. Il suo passaggio nella città asburgica equivalse alla riscoperta di Rossini e all’affermazione di proposte “ardue” come
Wozzeck e Pelléas, o come le opere tragiche di Janàcek e il Mozart minore. Quando reintrodusse l’opera di Schubert
Fierrabras, capolavoro ignoto, lo ribattezzarono «Schatzgraeber», lo «scopritore di tesori nascosti».
Timido da bambino, Claudio conservò da adulto, e a dispetto della fama, un’indole introversa e riservata. Ma chi l’ha conosciuto può testimoniare il suo calore umano, la sua “lievità” mozartiana e la sua voglia di scherzare con gli amici, come Roberto Benigni (che prese come voce recitante per un memorabile Pierino e il lupo), Renzo Piano e Roberto Saviano. Alle persone fidate offriva la sua visione candida e illuminata delle cose del mondo, fiorita dalla radice dei suoi ideali “alti”. Tra questi, in tempi recenti, era divenuto centrale il culto ambientalista, su cui aveva dirottato l’impeto politico della sua gioventù milanese.
Parlava poco, e la scarsa loquacità caratterizzava anche le prove con le orchestre, molto tecniche e con spiegazioni verbali ridotte al minimo. Era persuaso che i musicisti dovessero capire le sue intenzioni tramite le mani e lo sguardo, il che, nei concerti dal vivo, si realizzava in modo prodigioso. Sul podio emanava un magnetismo galvanizzante per i musicisti, portati a dargli il meglio. Dotato di una strepitosa memos’era
ria musicale (dirigeva senza partitura), non è mai stato un maestro autoritario: «Poco egocentrico e calmo», lo definì il pianista Alfred Brendel. E quando s’arrabbiava preferiva alle invettive certe occhiate dure e metalliche: «È lo sguardo saraceno», scherzavano gli orchestrali, riferendosi alla discendenza della sua famiglia da un guerriero arabo del dodicesimo secolo, Abbad, costruttore dell’Alcazar di Siviglia.
Capitolo donne: Abbado ne è stato sempre molto amato. Se da giovane era ispirato e fascinoso, da vecchio, volatile e sottile, suscitava desideri protettivi. Pareva delicato, ma aveva una forza e un’ostinazione con cui non pochi
esseri umani, nel lavoro e nel privato, hanno dovuto fare i conti. La sua prima moglie è stata Giovanna Cavazzoni, madre dei due figli più grandi: Daniele, regista di prosa e lirica, e Alessandra, che fu a lungo l’anima organizzativa di Ferrara Musica. Sposò in seguito Gabriella Cantalupi, madre di suo figlio Sébastian, e dopo la separazione convisse per cinque anni tra Berlino e Vienna con la violinista russa Viktoria Mullova. Ebbe da lei l’ultimo figlio, Mikhael, nato nel ’91.
Dopo la malattia aveva rinunciato a viaggi e a case in giro per il mondo, e viveva tra la sua villa di Alghero, affacciata sul mare e ornata da un giardino rigoglioso di
cui andava fierissimo, e un appartamento al centro di Bologna, premiato da un’altana che fronteggiava le due torri. Aveva ridotto molto il numero di esecuzioni, limitandosi a collaborazioni sporadiche con le orchestre del cuore: la Mozart di Bologna soprattutto, e in estate quella del Festival di Lucerna. Ma i suoi ottant’anni, compiuti nel giugno scorso, li aveva festeggiati con un ciclo di concerti sul podio degli adorati Berliner. A fine agosto Napolitano lo aveva nominato “senatore a vita”. Lascia un segno profondo e indelebile nella storia dell’interpretazione musicale.
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L’armonia del mondo
Il milanese Abbado sarebbe rimasto come direttore musicale del più importante teatro del mondo dal 1968 al 1986, circondato da una città che viveva contemporaneamente un grande fermento culturale e una tragedia politico-sociale: risvegliata dal movimento studentesco, ferita dal terrorismo, terrorizzata dalle malavita e dai rapimenti, impegnata col teatro, il Piccolo di Strehler, il Franco Parenti, l’Elfo, sedotta dalla letteratura sudamericana che la Feltrinelli aveva per la prima volta portato in Italia, appassionata di grandi mostre diventate epocali, al tempo del sindaco Tognoli che, dice, «quelli della mia amicizia con Abbado sono stati gli anni più belli della mia vita». E ricorda come i democristiani della maggioranza silenziosa avessero accusato l’odiato musicista “sinistrorso” di costare troppo, accusa sempre ricorrente e sempre fasulla, rivolta a chi si occupa di cultura e che quindi avrebbe il dovere di essere povero. Intanto arrivavano gli anni di piombo, e poi l’età del cachemere, infine la Milano da bere e della moda.
Negli anni 70 la Scala era diventata un pericoloso covo di sinistra, con Abbado, i sovrintendenti Grassi e poi Badini, Strehler, Pollini. C’era infatti questa idea entusiasmante per alcuni e minacciosa per molti, di spalancare la Scala con tutti i suoi velluti e ori, non solo alla ignota musica contemporanea, ma anche agli studenti e peggio ancora agli operai: o di andare addirittura nelle fabbriche a portargli la grande musica, talvolta imponendogli anche il “rosso” ma non facile Luigi Nono. Quando nella stagione scaligera del 1975 fu dato al Teatro Lirico Al gran sole carico d’amore di Nono, con testi di Marx, Lenin, Guevara e un pubblico stravolto, ci fu una grandiosa protesta politica. Ma Abbado continuò imperterrito la sua politica di rinnovamento e gli abbonati tentennarono per i tanti Berg, Stravisnkij, Schönberg, sino a stremarli del tutto, nel 1984, con la prima mondiale di Donnerstag aus Licht di Stockhausen.
Però i giovani richiamati da quell’appassionato pifferaio prendevano il treno anche da lontano e correvano alla Scala, sentendosi parte di un cambiamento culturale e quindi sociale. Lo ricorda Franco Pulcini, direttore editoriale alla Scala, che da ragazzo arrivava in treno da Torino per rifugiarsi nel loggione, alle serate speciali a poco prezzo per i giovani. Il sogno di Abbado era non solo far vivere la musica nuova, ma trascinare i giovani a diventare musicisti: nel ’78 fondò la European Community Youth Orchestra in cui era riuscito a riunire giovani di qua e di là dal muro, sovietici e francesi, italiani e polacchi, poi diventata la Chamber Orchestra of Europe: poi la Gustav Mahler Jugendorchester e infine l’orchestra Mozart, messa insieme andando in Venezuela a capire il lavoro di Abreu con i bambini; per questa sua idea che la cultura sia il solo modo di salvare il mondo.
Chi ha lavorato con lui lo ricorda come un uomo difficile, molto esigente, certe volte arrogante, con una vita privata quanto mai ricca e mutevole e nessun interesse per il denaro. E per esempio se gli conferivano un premio quel denaro lo trasformava in borse di studio. Lo stipendio di senatore a vita andava alla scuola musicale di Fiesole. A Berlino, dove ha vissuto come direttore dei Berliner, se doveva andare altrove lasciava la sua casa e il suo pianoforte a giovani musicisti. Tanto per infastidire ancora di più la borghesia non solo milanese, aveva un buon rapporto con Cuba, perché secondo lui Fidel Castro aveva cercato di cambiare il mondo: era andato a dirigere a l’Avana concerti e inviava laggiù strumenti musicali. Era milanista e velista non dei più provetti. Tutti i suoi amici sapevano della sua passione ecologista che era il suo nuovo impegno politico; e per esempio aveva proposto al sindaco di Ferrara di dare alla città solo taxi elettrici, oppure di chiedere a tutti di usare la bicicletta. Per impedire alle automobili l’accesso alla colline bolognesi aveva immaginato la creazione di una grande ovovia.
Dopo aver vissuto dove lo portavano gli incarichi, a Vienna, a Londra, a Berlino, gli avevano suggerito di stabilirsi a Bologna, dove vive sua figlia Alessandra e un medico nutrizionista che lo poteva seguire nella convalescenza dopo l’operazione allo stomaco: avrebbe accettato solo se avesse potuto abitare nella meraviglia di Piazza Santo Stefano, quella delle sette chiese. Gli hanno trovato la casa, dice il notaio Giorgio Forni, amico intimo del Maestro, «un piccolo abbaino con mobili Ikea, dischi libri e un terrazzino che Abbado, giardiniere appassionato ha trasformato in una giungla stipata di aranci e olivi e fiori: stava pensando in questi ultimi giorni al giusto rampicante per la scaletta che sale all’altana dove lui portava tutti i suoi amici per vedere la meraviglia dei rossi tetti bolognesi». Il suo ultimo progetto visionario, studiato insieme all’amico Renzo Piano e che forse resterà irrealizzato, è un immenso auditorium associato ad una scuola di musica dentro un grandioso vivaio, perché «se ti dedichi alla musica e alla natura insieme, puoi salvare il mondo».
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Barenboim: spingeva l’orchestra a cercare l’anima della musica
La musica attraversa il tempo, sonda emozioni, pesca nella memoria. Tocca la testa, il cuore e l’anima, se per anima s’intende una dimensione spirituale. Questo tendeva a fare il pur laicissimo Abbado, «il mio grande amico Claudio, incontrato sulla miastrada“solo”unasessantina d’anni fa», sostiene con trasporto Daniel Barenboim, che lo conobbe in gioventù e che gli era accanto in occasione del suo glorioso ritorno alla Scala, nel 2012. «Eravamo due ragazzi quando frequentavamo fianco a fianco un corso di direzione d’orchestra a Siena», dice, «e fu lì che nacque un lungo legame musicale e umano, che non si è mai perso».
Può esprimere il senso e il livello di Abbado musicista?
«Se potessimo spiegare razionalmente le Sinfonie di Beethoven non avremmo bisogno di suonarle. In questi capolavori c’è qualcosa in più, un nucleo ineffabile che sfugge alla tecnica e alla descrizione della struttura formale. Che si tratti di Mozart, Beethoven o Boulez, la musica ha sempre un contenuto, un messaggio di profonda umanità. Implica una dichiarazione d’importanza fondamentale sulla sostanza dell’umano. È un commento decisivo sul nostro esistere. Tutto ciò ha a che vedere con una spiritualità che va lontano, e che non può limitarsi soltanto a una professionalità esecutiva di supremo livello. Proprio in quell’andare lontano si rifletteva il percorso straordinario di Claudio, fin dagli inizi del suo viaggio».
Quando vi conosceste?
«Nei primi anni Cinquanta, quando Claudio studiava pianoforte con Friedrich Gulda al Mozarteum di Salisburgo», racconta il direttore d’orchestra e pianista ebreo argentino, raggiunto telefonicamente a Siviglia dove sta provando con la sua West Eastern Divan Orchestra, formazione da lui fondata che unisce musicisti arabi e israeliani in un dialogo musicale inteso come messaggio di pace, armonia e cultura. Nel pensiero del mondo, nel lavoro con i giovani, nella visione “politica” della musica, Barenboim ha sempre coltivato numerose “affinità elettive” con Claudio. «Rammento che da giovanissimo suonava molto bene Liszt», continua il maestro, «e che negli anni Sessanta, al Festival di Edimburgo, io e lui eseguimmo a quattro mani pezzi di Schumann per la tv inglese. Sono ricordi incancellabili, che mi stanno dentro».
Ci parli del modo di Abbado di essere direttore d’orchestra.
«Era un perfezionista che cercava di andare sempre oltre, in sfere non analizzabili né verbalizzabili. È ciò che intendo col termine “spirituale”. Trasmetteva quel “qualcosa” sia dirigendo a Berlino sia sul podio dell’orchestra di Lucerna. Traeva il meglio dai suoi orchestrali, come un magnete. In occasione del suo ultimo compleanno l’ho sentito dirigere a Bologna la Sinfonia Classica di Prokofiev, composizione umoristica e “leggera”. Eppure anche lì riusciva a riversare un’intensa spiritualità ».
Com’era durante le prove?
«Parlava pochissimo. Era avaro di spiegazioni. Ma la sua ricerca era totalmente chiara. Chiedeva all’orchestra di ripetere, ancora e ancora. Era come se ognuno degli orchestrali dovesse trovare una motivazione a quanto stava suonando. Non il cosa e il come della musica, ma il perché».
Articoli da La Repubblica 21.01.14 non firmati dai giornalisti in agitazione
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