In materia di salute è un errore comune quello di considerare gli addetti ai lavori non solo i medici, ma anche chi sperimenta i farmaci, chi li produce e chi li vende come persone coinvolte in una attività nella quale prevale la dimensione morale, e come se questo forte coinvolgimento impedisse loro di ragionare, agire e pianificare il proprio lavoro secondo altre possibili considerazioni.
L’ultima considerazione, in ogni caso, sarebbe sempre quella del profitto, una vera e propria eresia. Eppure leggo sul Corriere della Sera di venerdì scorso che in Italia ci sono 150 farmaci, alcuni dei quali appartenenti alla categoria dei cosiddetti «salvavita» che non sono facilmente reperibili in farmacia, perché il farmacista o il grossista che dovrebbe provvedere alla loro distribuzione trova economicamente vantaggioso dirottarli sui mercati di alcuni Paesi stranieri, nei quali costano persino tre volte di più. Federfarma ha commentato questa notizia sottolineando che non c’è niente di illegale, mi piacerebbe avere un suo giudizio sulla moralità di queste scelte.
Ma i farmacisti e i grossisti non sono certamente gli unici a fare scelte moralmente eccepibili nel campo della farmacologia. Scelgo a caso qualche esempio tra i più significativi.
Il mifepristone, il farmaco che si usa in tutto il mondo (un po’ meno in Italia) per interrompere le gravidanze, è stato sintetizzato dai ricercatori francesi della Roussel Uclaf nel 1980 nel corso di studi sugli antagonisti dei recettori per i glucocorticoidi. Ottenuta la licenza, ma prima che il farmaco fosse messo in vendita, la Roussel Uclaf ne annunciò il ritiro, motivandolo con le forti pressioni subite da parte dei movimenti pro-vita che minacciavano di boicottare tutti i farmaci prodotti dall’industria. Due giorni dopo il governo francese, comproprietario della Roussel Uclaf, intervenne in favore della ripresa della produzione e della distribuzione del farmaco. Il ministro della salute (Claude Evin, un socialista) in quella occasione, dichiarò: «Non posso permettere che il dibattito sull’aborto privi le donne di un prodotto che rappresenta un progresso della medicina. Dal momento in cui il governo francese ne ha approvato l’impiego, l’Ru486 è diventato di proprietà morale delle donne».
Ancora un esempio. Negli Stati Uniti (ma la stessa cosa poteva accadere in molti Paesi europei) lo scorso secolo è stato segnato da una grande numero di scandali relativi alla sperimentazione di nuovi farmaci su persone inconsapevoli. Vittime di questi indegni soprusi sono stati soprattutto i bambini, e in particolare i bambini che vivevano negli orfanotrofi o erano ricoverati in ospedali per bambini senza famiglia, e ciò perché questi soggetti erano considerati ideali per sperimentare i nuovi vaccini. Ho letto la dichiarazione di uno dei medici chiamati in causa che si giustificava dicendo che quei bambini avevano ricevuto molto dalla società e che era giusto che questa generosità fosse ripagata in qualche modo.
Gli scandali hanno frenato, ma non hanno del tutto impedito che la ricerca continuasse nelle società industrializzate, e contemporaneamente ne hanno spostato una buona parte nei Paesi più poveri, in Africa e in Asia. Scrive a questo proposito Carl Elliott (Better than Well. American Medicine Meets American Dream, Beacon Press, Boston 2008) che la ricerca sperimentale sull’uomo sta cambiando, anche perché inseguita dalle critiche e dalle proteste: abbandonate in buona parte le ricerche eseguite nelle università, si svolge nei Paesi del terzo mondo, in Istituzioni private, controllate da Comitati etici «for profit», sovvenzionati dall’industria del farmaco. In questi luoghi si arruolano pazienti attirandoli con somme di denaro importanti e offrendo loro ulteriori bonus se sono in grado di convincere qualche amico a farsi arruolare nella ricerca.
Il fatto che la sperimentazione farmacologica si sia spostata almeno prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo, è stato oggetto di analisi anche da parte del Comitato Nazionale per la bioetica (La sperimentazione farmacologica nei Paesi invia di sviluppo, approvato il 27 maggio 2011). Scrive il documento: «Purtroppo è emersa, con sempre maggiore frequenza a livello internazionale, la preoccupazione che la globalizzazione degli studi clinici nasconda soltanto una delocalizzazione o esternalizzazione della sperimentazione, per ridurre i costi e semplificare le formalità burocratiche, per reperire con maggior facilità e rapidità “corpi” da utilizzare, per penetrare in nuovi mercati».
Appelli, documenti, richiami all’ordine, proteste su questo problema ne sono giunte da tutte le parti ma, a quanto ci consta, hanno ottenuto risultati mol-
to modesti. Del resto anche le richieste, alcune delle quali presentate dallo stesso Comitato di bioetica italiano, relative alla rinunzia al segreto nelle procedure riguardanti il sistema regolatorio dei farmaci, segreto che continua a essere un privilegio dell’industria farmaceutica europea sono rimaste senza risposta; e lo stesso si può dire per la richiesta di rinunciare ai protocolli di ricerca basati anche sulla somministrazione di placebo o svalutazione dell’attività dei farmaci basata anche sul principio di «non inferiorità», tutte metodologie altrettanto astute quanto scorrette. Nel documento che ho già citato il Cnb ha scritto testualmente: «Da tutto ciò nasce il timore, di cui si fa interprete il Cnb, che gli interessi commerciali possano nascondersi dietro gli interessi scientifici e possano prevalere sul rispetto dei diritti umani fondamentali, traducendosi in forme di colonialismo e imperialismo bioetico, di indebito sfruttamento e strumentalizzazione a causa della differenza nelle conoscenze scientifico-tecnologiche e delle diseguaglianze economico-sociali oltre che culturali».
Il problema è che nella maggior parte dei casi chi si occupa dei farmaci della produzione e del commercio agisce all’interno della legalità, anche se abbiamo tutti l’impressione che alcune delle norme che li contengono gli vadano un po’ strette e che altre siano state approvate con il loro diretto contributo. Comportamenti legalmente amorali. Solo che non è vero che noi dobbiamo subire supinamente questi soprusi: se il mondo, brutto com’è, ci viene venduto senza apparenti alternative, proviamo a dire di no. C’è un po’ di dignità nazionale da difendere; c’è l’esempio di Claude Evin; e avete mai sentito parlare del boicottaggio?
L’Unità 20.01.14