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“Paolo Borsellino: diciassette anni dopo la strage l’indagine è sul ruolo dei servizi”, di Nicola Biondo

Le Procure di Caltanissetta e Palermo scavano nei rapporti tra Cosa Nostra e gli apparati dello Stato. Dietro la decisione di uccidere Borsellino la storia di un’inconfessabile trattativa avviata da Riina.
Sono passati diciassette anni dal giorno in cui giudice Paolo Borsellino e la sua scorta furono trucidati da un’autobomba. Diciassette anni senza verità. Troppe ombre, false testimonianze, reticenze, omertà. Ma forse tutto questo sta per finire. Le indagini delle Procure di Caltanissetta e Palermo – che mai si sono interrotte – negli ultimi mesi hanno individuato tre nuove testimonianze che potrebbero essere decisive.
La prima è quella del mafioso Gaspare Spatuzza. Dopo 11 anni di carcere duro ha rivelato di essere stato lui a rubare la macchina che sarebbe poi stata imbottita di esplosivo. Un racconto che demolisce molte false verità, alcune delle quali consacrate da sentenze passate in giudicato, e apre la porta all’individuazione di nuovi e diversi responsabili dell’organizzazione della strage.
Le altre due testimonianze sono quelle di Giovanni Brusca, il killer della strage di Capaci, e di Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, la mente dei rapporti tra il mondo politico e la mafia. Entrambi, da visuali diverse, dicono la stessa cosa. E cioè che, in quei 57 giorni che separano la morte dei giudici Falcone e Borsellino, lo Stato e Cosa nostra trattarono.
Il figlio di don Vito racconta di aver incontrato in quella torrida estate del 1992 gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno e alcuni agenti segreti. Chiesero a suo padre di fare da intermediario con i boss. E don Vito ubbidì. In quello stesso periodo, infatti, incontrò Bernardo Provenzano e un emissario di Riina, Antonino Cinà. Divenne, in sostanza, il garante di un patto col sistema politico.
Il racconto di Giovanni Brusca è ambientato in luoghi e situazioni del tutto diverse dal salotto di don Vito e arriva dal cuore nero di Cosa nostra. «Riina mi disse chi era il terminale della trattativa», ha rivelato di recente. E ha aggiunto: «Per la strage del dottor Borsellino ci fu una straordinaria accelerazione». Determinata dal fatto che il giudice si era opposto alla trattativa «con tutte le sue forze».
Il tema delle nuove indagini è nella domanda che scaturisce da questa informazione. Una domanda che ci si pose fin dal 1992 e che oggi torna a essere drammaticamente attuale: è stata una strage di mafia, solo della mafia? È questa la posta in gioco. Altissima. Perché la ricerca della verità porta ad arare campi lontani da quelli tradizionalmente coltivati dai boss di Corleone.
Una fuga di notizie sulle indagini in corso ha riportato alla ribalta una vecchia storia che l’Unità ha già raccontato. È quella di Luigi Ilardo che, tra il 1994 e il 1996, si infiltrò nella mafia per conto del colonnello della DIA Michele Riccio e che poi, come tanti altri protagonisti di questa storia, fu assassinato.
Ilardo è stato il primo a parlare di un patto tra politici della Seconda Repubblica e la mafia. Secondo il colonnello Riccio – che è diventato il principale accusatore del suo superiore – un giorno lo gridò al generale Mori: «Molte cose successe in Sicilia, questi attentati – gli disse – sono stati fatti dallo Stato e addossati alla mafia e voi lo sapete…».
Una miniera di informazioni, Ilardo, e tutto date in tempi non sospetti. È stato anche il primo a parlare di «faccia da mostro». È questo personaggio, sul quale indagava la procura nazionale antimafia diretta da Pietro Grasso, l’oggetto della citata fuga di notizie). Si tratta di un agente dei Servizi contiguo ad ambienti mafiosi che, fin dagli anni ‘80, cominciò a comparire in luoghi dove venivano compiute delle stragi o degli omicidi.
È stato sempre Ilardo a raccontare di incontri riservatissimi tra Riina ed esponenti dei Servizi, insomma qualcosa di molto simile a quello che in seguito sarebbe stato chiamato il «papello». «Molte ombre – disse ancora Ilardo qualche tempo pprima di essere ucciso – aleggiano intorno all’arresto di Totò Riina. All’interno di Cosa Nostra si faceva esplicito riferimento al ruolo avuto dai servizi segreti anche alla luce degli strani contatti che Riina aveva con persone sconosciute anche ai suoi più stretti collaboratori».
Una testimone prezioso, capace di fornire anche una lettura di sintesi degli avvenimenti di quegli anni. Eccola: «Molti misteri siciliani, la maggior parte dei delitti politici in Sicilia, non sono stati a favore di Cosa Nostra. Cosa Nostra ha avuto solamente danni da questi omicidi, quelli che ne hanno tratto vantaggi sono solamente politici.
Diciassette anni dopo quella lettura sembra potersi applicare anche alla strage di via D’Amelio. Perché, in effetti, Cosa Nostra ne ebbe solo danni. La reazione dello Stato fu la promulgazione della legge sul carcere duro e l’arresto di tutti i boss più rappresentativi, da Riina a Bagarella. Ma chi, allora, ebbe dei vantaggi da quella strage? Ancora una risposta postuma di Ilardo: «Ci sono state tante e tante altre cose in Sicilia, come ad esempio molti omicidi che, da quello che mi è stato raccontato da persone inserite in Cosa Nostra, sono stati commessi dai Servizi Segreti e poi addossati a Cosa Nostra».
E adesso è chiaro perchè da qualche tempo negli uffici giudiziari siciliani si respira una tensione che sembrava dimenticata. Non solo perché, forse, si sta per venire a capo di una delle vicende più misteriose dell’ultimo ventennio. Ma, soprattutto, perchè si ha l’impressione di poter scoprire, attraverso di essa, le «regole generali» di un meccanismo che ha segnato tragicamente l’intera storia del nostro paese.
L’Unità 18.07.09

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