Era il 18 gennaio 1994. Mino Martinazzoli annunciò la rifondazione del Partito popolare nella sede storica dell’Istituto Sturzo, a Palazzo Baldassini. Poco distante, nell’hotel Minerva di Roma, la mattina di quella stessa giornata, Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio avevano dato vita al Ccd. La Democrazia cristiana il partito che aveva governato per quasi mezzo secolo, guidando la ricostruzione, l’industrializzazione, la crescita democratica del Paese e poi anche la degenerazione del potere chiuse così i battenti. Era appena iniziata la campagna elettorale che avrebbe portato Berlusconi al clamoroso successo. I referendum di Segni avevano imposto la svolta maggioritaria. E il ciclone di Tangentopoli aveva azzerato un’intera classe dirigente. Tuttavia entrambe le filiazioni della Dc, benché in compitizione tra loro, andavano incontro alla sconfitta.
Sì, perché anche Casini, che pure accettò da subito la sfida bipolare e uscì dalle urne del ’94 tra i vincitori, si ritrovò in posizione subalterna rispetto a quel Berlusconi, che alla Dc aveva strappato tanti elettori, ma della Dc non aveva neppure un cromosoma. La convivenza col Cavaliere è durata dieci anni: poi la rottura ha ulteriormente marcato lo spostamento a destra e la deriva populista di quella che fu la rappresentanza dei «moderati» italiani.
La sconfitta più significativa fu comunque quella di Martinazzoli. Lui, generosamente, interpretò la ri-costituzione del Ppi come «la terza fase» del cattolicesimo democratico. Quella «terza fase» che Aldo Moro aveva intravisto, auspicato, ma che venne travolta dalla mano assassina dei brigatisti. Il moroteo Martinazzoli sperò che in quei primi anni Novanta dal male della corruzione, dal blocco politico del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), dalla crisi di sistema in cui il Paese era sprofondato dopo l’adesione al trattato di Maastricht, potesse scattare una redenzione. I valori «buoni» della Dc, in fondo, avevano vinto e l’economia sociale di mercato era anche per la sinistra la sola difesa disponibile a fronte del liberismo arrembante: perché da quelle radici non poteva nascere una nuova pianta? Peraltro, il ritorno al Ppi era anche un riconoscimento della novità del Concilio: l’unità politica dei credenti non aveva più un fondamento teologico e la proposta «popolare» si sarebbe misurata con il pluralismo delle opzioni politiche nella stessa Chiesa.
Il maggioritario nostrano, però, prima ridusse il Ppi a una terza forza minoritaria, poi lo costrinse alla scelta: o con i progressisti o con Berlusconi. E il paradosso maggiore è che i cattolici che scelsero più convintamente la sinistra, lo fecero accettando l’oblio della raffinata cultura costituzionale della Dc, di quella capacità di usare le istituzioni per includere, di concepire la mediazione come valore, di distinguere i poteri per evitarne l’eccessiva verticalizzazione. La Dc non sarebbe stata se stessa senza la filiera di giuristi che va da Costantino Mortati a Leopoldo Elia. Non avrebbe avuto i tratti originali che abbiamo conosciuto con De Gasperi, con Fanfani, con Moro e con lo stesso De Mita, il quale compì l’ultimo serio tentativo di rigenerazione democristiana, pur dentro l’impraticabile blindatura pentapartita.
LA CULTURA COSTITUZIONALE
La spinta forte dei cattolici democratici verso l’Ulivo fu quella dei referendum e della «religione» del maggioritario. In fondo in Romano Prodi c’era uno spirito di rottura non dissimile da quello di Mario Segni: la percezione di una necessaria, radicale innovazione nelle forme della competizione politica. Un bipolarismo quasi angosassone, che non solo punisse (giustamente) l’occupazione dei partiti nella società ma anche (discutibilmente) la responsabilità dei partiti nella formazione dei governi e nella vita delle istituzioni.
La Dc nasce, prospera, dà il meglio di sé nella società divisa dalla Guerra fredda, nell’Italia che si emancipa dalla povertà, nel sistema proporzionale, nella Chiesa che protegge l’unità politica dei credenti. Le gabbie dei blocchi sociali le assegnano la rappresentanza dell’elettorato conservatore e anti-comunista, ma la Dc tenta sempre di superare se stessa e si concepisce sin dalle origini come «un centro che guarda a sinistra». Il no di De Gasperi al Papa che gli chiedeva di aderire all’«operazione Sturzo» è un vero e proprio atto fondativo della Dc, della sua laicità e della sua fedeltà alla Costituzione. In fondo De Gasperi si rifiutò di fare cio che Berlusconi fece quarant’anni dopo: un’alleanza senza confini a destra.
Ovviamente la Dc ebbe diversi sbandamenti a destra: negli anni 50 fino alle pagine nere del governo Tambroni, poi ancora negli primi anni 70. La sua vita interna è stata piena di battaglie. Spesso decisive per il Paese. Era il partito della nazione. Nel bene e nel male. E con Moro, che rispettava il radicamento e la cultura nazionale del Pci, arrivò fino a tentare un salto democratico non compatibile con i rapporti di forza internazionali del tempo.
Oggi non sentiamo più alcuna nostalgia della Guerra fredda, né dell’unità politica dei cattolici. La Dc non ha più ragion d’essere. Eppure quella cultura personalista sedimentata nei corpi intermedi e nella Costituzione, quel senso del limite della politica e dei poteri, quell’idea delle istituzioni come mediazione (e non negazione) dei conflitti, sarebbe oggi utile. Anche a sinistra. Se il Pd vuol essere il partito della ricostruzione nazionale, non ha interesse ad azzerare la storia. Il nuovismo è effimero: la parabola di Berlusconi l’ha dimostrato. Non è un caso che, seppure la Dc non abbia veri eredi, i leader più giovani ed emergenti abbiano una discendenza proprio da quella storia.
L’Unità 17.01.14
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“Togliatti – e noi! non abbiamo sbagliato mai niente! Parola di marxista ratzingheriano…”, di Giuseppe Vacca
Il giudizio del Pci sulla Dc durante la Prima Repubblica fu molto oscillante. Si può dire, però, che fino alla fine degli anni Settanta le oscillazioni corrispondevano a modalità diverse di far leva sulla sua ispirazione antifascista, mentre negli anni Ottanta, con la crisi del paradigma antifascista, l’avvicinamento al socialismo europeo e la scelta della «democrazia dell’alternanza», il Pci se ne fece un’altra immagine e cercò di spingere la Dc ad assumere il ruolo di un grande partito di destra di stampo europeo.
Fino all’inizio degli anni 70 la definizione predominante della Dc era nel Pci quella di «partito di governo della borghesia», risalente a Palmiro Togliatti. Ma conviene ricordare che Togliatti fu interprete di fasi molto diverse dei rapporti fra Pci e Dc. Nel triennio dei governi di unità antifascista (1944-47) favorì l’avvento di De Gasperi alla presidenza del Consiglio e l’assunzione di un ruolo preminente della Dc nella compagine di governo. Queste scelte erano dettate non solo da realismo politico o da calcoli di partito. Certo, Togliatti sapeva che nella sfera d’influenza occidentale, in cui era collocata l’Italia, non potevano essere le sinistre a primeggiare nel governo e d’altro canto la crescita del ruolo della Dc favoriva quella del Pci nella sinistra, essendo i due partiti di massa più dotati di risorse militanti e adesioni popolari. Ma la scelta di favorire l’ascesa di De Gasperi era legata anche al convincimento di poter contare sul fatto che la Dc non avrebbe potuto facilmente rinunciare alla sua ispirazione antifascista senza mettere in crisi l’«unità politica dei cattolici», necessaria a vincolare la Chiesa alla democrazia repubblicana.
Dopo il quinquennio più aspro della guerra fredda e la sconfitta del centrismo nelle elezioni del 1953, la Dc decise di raccogliere la sfida delle sinistre e questo consentì al Pci di inserirsi nella nuova fase politica favorendo l’apertura ai socialisti e giuocando la carta della sinistra democristiana per ricostruire l’arco delle forze che avevano collaborato alla stesura della Costituzione e potevano sostenere un programma di riforme che si proponesse di attuarla. Secondo Togliatti, questa politica doveva mirare a mettere in crisi la centralità democristiana e per questo coniò un’immagine negativa della Dc degasperiana con l’ambizione di influire sulla lotta delle sinistre al suo interno. Quell’immagine della Dc «partito della restaurazione capitalistica» e «partito americano», inaffidabile anche sul terreno dell’antifascismo, rimase uno stereotipo della cultura politica del Pci fino ai primi anni 70, per essere poi incrinata ma non sradicata dalla mentalità delle sinistre in cui è fortemente presente anche ai giorni nostri.
Fu incrinata negli anni in cui i protagonisti della scena politica divennero Moro e Berlinguer: gli anni della «strategia dell’attenzione» e del «compromesso storico». Alla base delle loro politiche vi era l’intuizione condivisa che l’instabilità internazionale e il «conflitto economico mondiale», seguiti alla fine del sistema di Bretton Woods e del «trentennio d’oro» della crescita mondiale e dello Stato sociale, riproponesse acutamente il problema della fragilità interna e della debolezza internazionale dell’Italia; perciò le due principali forze politiche dovevano cercare di convergere e di rafforzarne la coesione interna. Moro e Berlinguer condividevano una visione del problema italiano ereditata da De Gasperi e Togliatti, fondata sull’esperienza del fascismo. Quindi erano convinti che in un periodo storico di
instabilità internazionale e di acuti conflitti sociali una polarizzazione radicale secondo lo schema destra-sinistra avrebbe ridato fiato allo «spessore reazionario» della società italiana, consegnando «i moderati» all’egemonia di una destra antidemocratica e spingendo la Chiesa a fare blocco con essa. Moro e Berlinguer condividevano, perciò, anche l’idea che la crisi della democrazia repubblicana, insidiata dalla «strategia della tensione», dallo stragismo neofascista e dal terrorismo di sinistra, colpisse innanzitutto la Dc, che oltre a essere il perno del sistema politico era anche la principale garanzia della sua evoluzione. Questo indusse Moro ad adoperarsi per spostare tutta la Dc sul terreno del «confronto» col Pci e Berlinguer a spingere il Pci a mutare l’immagine della Dc riconoscendone il carattere di partito nazionale e popolare.
LA DEMOCRAZIA BLOCCATA
Il fallimento della «solidarietà nazionale», l’assassinio di Moro e l’inizio della «nuova guerra fredda» mutarono drasticamente lo scenario politico. L’anticomunismo dei neoconservatori che avevano assunto la guida degli Usa e della Gran Bretagna era molto più assertivi del passato, mentre l’opzione europea della politica italiana era ormai condizionata dal progetto di integrazione a egemonia tedesca avviato da Helmut Schmidt. Nel regime di «democrazia bloccata» che né Moro, né il Pci, avevano avuto la forza di superare, il Pci era una forza ormai isolata che rischiava un inarrestabile declino. La nuova generazione che prese in consegna le sorti del partito fra l’88 e l’89 fece quindi l’unica cosa vitale che si potesse fare: avviò un ricambio della sua cultura politica e ne decretò la fine. Il gruppo dirigente occhettiano era consapevole che eliminando il supporto dell’anticomunismo alla «costituzione materiale» del sistema di governo si apriva una voragine e cercò di colmarla con risorse culturali e politiche che non avevano avuto una sedimentazione adeguata.
Per limitarmi al tema che sto trattando, concepì il passaggio alla democrazie dell’alternanza come una semplificazione tendenzialmente bipartitica del sistema politico secondo uno schema sinistra-destra e, per giustificare la sua scelta propose una banalizzazione della storia della Prima Repubblica che, per farmi capire, rendo di proposito caricaturale: quarant’anni di consociativismo e di malgoverno democristiano. L’unico riferimento consolidato di questa visione era la «cultura radicale» e si può capire perché, da queste premesse, fosse difficile provare interesse per i tentativi di rifondare politicamente il cattolicesimo democratico. Sulle ceneri della Prima Repubblica aleggiava il fantasma del «nuovo inizio» che favorì l’avvento di Forza Italia.
L’Unità 17.01.14