Lo Stato può incassare più soldi senza spendere un euro? Sì, basta che si decida a emanare i nuovi bandi di gara (fermi da quattro anni) per l’appalto dei servizi nei musei. La legge Ronchey n.4/1993 cominciò a risolvere un annoso problema consentendo finalmente l’ingresso di società private per creare guardaroba, librerie, caffetterie, ristoranti, audioguide, visite guidate e servizi simili.
Con una crescita promettente: fra il 2000 e il 2002 i musei coinvolti erano passati da 41 a 139. Col tempo però, come succede da noi, 7-8 società hanno finito per spartirsi la parte più ghiotta dei servizi, evitando investimenti troppo impegnativi (la ristorazione) e ritagliandosi «comode» rendite. Nel 2006 soltanto il 10% dei Musei statali risultava offrire servizi di caffetteria e di ristorante. Mentre le librerie (pardon, Bookshop) c’erano nel 41,2 % dei casi e le mostre temporanee nel 48-49% .
Perché? Perché sulle ultime le concessionarie lucrano un’alta quota (anche il 70 % secondo la Corte dei conti) sul biglietto aggiuntivo rispetto a quello di ingresso al museo condizionando la gestione di quest’ultimo. Oppure sono società esterne che propongono con pochissimo anticipo (due mesi, poniamo) mostre discutibili, ottengono, senza concorsi di sorta, dal Polo Museale di realizzarle in un museo e si prendono i 2 euro in più e buonasera. Quel 70% vale per le mostre al Colosseo dove l’afflusso dei visitatori – mostra o non mostra – è tale che si son dovuti bloccare, dopo la Pasqua 2012, gli ingressi a 6.000 unità al giorno.
APPALTI OPACHI
Perché lo Stato rinuncia a centinaia di migliaia di euro lasciando tutto l’incasso ai privati? Perché le conces- sioni di servizi museali e monumentali a società private restano opache e sono ferme alla fine del 2009. I bandi di gara messi a punto dall’allora direttore generale alla Valorizzazione, Mario Resca, in forma di «spezzatino», sono stati, uno dopo
l’altro, «fucilati» come gli omini di gesso delle fiere dai vari Tar regionali perché non ispirati a validi e trasparenti criteri di concorrenza. Risultato: gli appalti restano quelli – già «grassi» per le società concessionarie – di quattro anni fa e le Soprintendenze o i Poli Museali, cioè lo Stato, rinunciano a pacchi di milioni.
Vediamo un po’ di dati nazionali: gli introiti lordi da servizi aggiuntivi sono passati da 29,6 milioni del 2001 ai 44,6 del 2011 (con un picco di 46,2 l’anno prima). Quindi + 50,56%. La quota andata allo Stato è salita da 4,6 a 6,1 milioni (+32,0%), ma quella andata ai privati ha conosciuto ben altri incrementi: da 25,0 a 38,4, + 54,0 %. Va tutto bene? Gli incrementi percentuali pongono seri dubbi. Nel decennio la quota dello Stato è scesa dal 15,7 al 13,7 %, 2 punti in meno che sul totale di 44,5 milioni fanno pur sempre 1,2 milioni in meno. Non sono briciole. Ma c’è ben altro. Nelle tre regioni dove si incassa di più e cioè Toscana (18,0 milioni), Lazio (17,2) e Campania (4,7), le percentuali dello Stato oscillano fra il 15,8 della Campania e il modesto 10,8 del Lazio, in mezzo la Toscana. Nel Lazio, cioè a Roma, la quota media della Soprintendenza per bookshop e gadget è sul 23% ed è la quota massima. Le altre sono tutte a ribassare: 9,5% sulla caffetteria, 7,5 su self service e ristoranti, 2,7 sulle visite guidate, fino al misero 0,5 sulle audio guide. Del resto, nulla incassa la Soprintendenza sui biglietti delle visite notturne ai sotterranei del Colosseo (20 euro), nulla sulle visite diurne (9 euro). Sarebbe interessante sapere quanto incassa l’ascensore del Vittoriano (8 euro di biglietto) e quanto va al gestore del Vitto- riano (gara d’appalto annullata anche questa) e quanto allo Stato. È orrendo, però visto che c’è, che almeno sia redditizio anche
per l’Erario.
Invece di implorare soldi dai privati o di mandare in giro per il mondo opere delicatissime (la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca a New York, 35 Raffaello in Giappone) per impinguare i magri fondi statali, perché, ministro Bray, non dà subito corso alle linee-guida dei bandi di gara attese e date per pronte, anzi prontissime, dalla primavera 2013? Perché perdere altri mesi senza incassare somme preziosissime in più per un Ministero allo stremo? La sua decisione non costa un euro e può renderne tanti senza alzare un dito, pretendendo il giusto.
I PIANI PAESAGGISTICI
L’altra riforma senza spesa riguarda i piani paesaggistici. Nel 1985 il Parlamento – sconfessando nei fatti le Regioni titolari inadempienti della tutela sul paesaggio – approvò quasi alla unanimità la legge n. 431, voluta fortemente dal sottosegretario, lo storico Giuseppe Galasso, la quale prescriveva alle Regioni di elaborare e varare entro un anno i piani paesaggistici. Lo fecero soltanto tre o quattro. Altre poi si aggiunsero. Ma il Mi- BACT deve considerare i vincoli della Galasso confinati in una sorta di limbo se nel suo calepino «Minicifre della Cultura» (2012) espone soltanto le percentuali di aree vinco- late, regione per regione, in base alla legge n.1497 (Bottai) del 1939 e quelle protette da parchi nazionali, regionali, da riserve naturali, marine, ecc. per un totale di 3,2 milioni di ettari su terra e 2,8 milioni in mare. Nulla invece sui vincoli della legge Galasso che, sommati a questi, ci danno un 46,9 per cento delle aree terrestri soggetto a vincolo paesaggistico o ambientale.
Disattese le prescrizioni della legge n. 431, è arrivato il Codice per il Paesaggio, nelle versioni Urbani, Buttiglione e Rutelli. Fonda- to sulla co-pianificazione Ministero-Regioni. A che punto è questa dopo vari anni? Essa eviterebbe ulteriori dissipazioni di bellezza, di attrattività, di fascino (oltre che di utilità sociale). Darebbe più chance al nostro turismo culturale e naturalistico e, in generale, ossigeno a tutto il turismo che ormai rappresenta una quota elevata del Pil. Il sonno colpevole delle Regioni ha generato eco-mostri nel paesaggio. Ministro Bray, anche questo sarebbe un segnale forte, sul piano nazionale e internazionale. Lo dia, per favore. Al più presto. Le Regioni riluttano, resistono, vogliono fare da sé? Codice (del Paesaggio) e Costituzione alla mano ricordi loro cosa devono fare, cosa deve fare la Repubblica nel suo complesso se vuol salvare quanto resta del Belpaese «dove fioriscono i limoni».
Invece di piangere sulle sorti del nostro turismo (così male organizzato, così spesso arretrato), smettiamo di manomettere, di sfregiare, ma anzi preserviamo e restauriamo tutto ciò che lo alimenta, che lo rende affascinante, da secoli e secoli, nel mondo, il paesaggio appunto, quel «palinsesto millena- rio» in cui tutto si tiene, come disse trent’anni fa Giulio Carlo Argan al Senato sostenendo a fondo l’approvazione urgente della le ge Galasso (poi approvata nel 1985) sui piani paesaggistici invece quasi subito lasciata impolverare dalle Regioni, con la complicità dei vari governi.
L’Unità 17.01.14