La Lega ha infranto ogni dubbio e dissolto ogni ambiguità. Non è più quel movimento, osservato con troppa comprensione anche da sinistra, che rappresentava i bisogni del popolo ed esprimeva le pulsioni, confuse ma fattive, della classe produttiva della mitica padania. È un partito che è entrato a pieno titolo nel circolo del neopopulismo xenofobo di estrema destra. L’incontro del segretario leghista Matteo Salvini con Marine Le Pen azzera la speranza-illusione che la Lega post-Bossi sia un partito più “istituzionalizzato”.
La virata estremistica del Carroccio, per ora non contestata in alcun modo nemmeno dalle espressioni più moderate del leghismo, in primis il sindaco di Verona Flavio Tosi, non solo radicalizza in maniera vistosa il discorso politico (e gli attacchi razzisti al ministro Cécile Kyenge ne sono la prova), ma pone un problema “sistemico”. Come è possibile infatti che un partito che si sta alleando con l’estrema destra di tutta Europa governi il cuore produttivo del nostro paese, Piemonte, Lombardia e Veneto. Il semplice fatto che un partitino del 4% abbia in mano le chiavi di queste Regioni è un insulto al buon senso prima che a criteri di equa rappresentanza. Passi per il Veneto dove nel lontano 2010, un’altra era geologica ormai, la Lega aveva strappato la prima posizione con il 35% dei voti; ma il controllo del Piemonte (farlocco in quanto ottenuto grazie al supporto di una lista falsa e fantasma) e della Lombardia, dove un anno fa il Carroccio ha preso metà dei voti del Pd, offende ogni logica.
Questo sfondamento è stato possibile grazie alla sintonia, profonda e di pelle, che si è stabilita negli anni tra Berlusconi e Bossi, tanto da dar vita a quello che Edmondo Berselli definì il «forzaleghismo». La sintonia tra Lega e Pdl non è mai venuta meno nonostante l’opposizione leghista al governo Letta-Berlusconi. Ora, alla destra in tutte le sue componenti — Forza Italia, Nuovo centrodestra di Alfano, e anche Fratelli d’Italia — spetta prender posizione sull’abbraccio del Carroccio con il Front National francese.
In Francia nessun leader politico di destra, nonostante ricorrenti tentazioni, si sognerebbe mai di incontrare Marine Le Pen e di avviare accordi con lei. Già nel lontano 1998 il presidente Jacques Chirac, leader del partito gollista, non esitò a espellere tutti quei dirigenti che dopo le elezioni regionali vendettero l’anima al Front National di Le Pen padre pur di salvare la poltrona. Con quella scelta i gollisti rinunciarono a molte posizioni di potere, però l’onore politico fu salvo. Questo perché esiste in Francia una “destra repubblicana” che non transige sui valori fondanti del regime democratico. In Italia, l’indulgenza per le mille sfumature del “razzismo differenzialista” — quella riformulazione del razzismo che ha abbandonato l’idea di razze superiori e inferiori per sostituirla con il rifiuto del contatto e della convivenza tra etnie e nazionalità diverse — ha attraversato tutto il campo del centro-destra storico. Si ricorderà quante urla di sdegno tra i suoi alleati sollevò Gianfranco Fini quando nel 2003 propose il voto agli immigrati nelle elezioni locali. E quanta comprensione per le volgarità bossiane perché «non aveva studiato a Oxford» ripetevano in coro Berlusconi & Co.
Con le elezioni europee che incombono non è più tempo di indulgenze. Già il passaggio della Lega, nel novembre scorso, all’eurogruppo dell’Alleanza Europea per la Libertà, insieme all’Fpö austriaca del fu Jörg Haider, al Vlaams Belang fiammingo e, ovviamente, al Fn della Le Pen, aveva indicato la direzione di marcia. Se ora la Lega sceglie definitivamente di apparentarsi con l’estrema destra europea, tutti partiti devono trarne le conseguenze ed esprimersi, con parole nette e precise: con i nemici della liberal-democrazia, con i revisionisti soft, con i cantori del razzismo differenzialista, con gli emuli del principio del capo, il
Führerprinzip, (una sottile tentazione che attraversa anche terreni democratici di questi tempi) non ci possono essere intese. I governi delle grandi regioni del Nord in quelle mani sfregiano l’immagine dell’Italia. Quel che resta del Pdl, da una parte o dall’altra, è chiamato a un gesto di responsabilità e chiarezza. Isolare gli estremismi in un contesto di tensioni economiche sociali che finora, per fortuna, non sono mai degenerate è una priorità sistemica.
La Repubblica 17.01.14