Negli ultimi mesi di attivismo politico per il Partito Democratico a New York, ho capito tre cose. La prima: l’unico modo per non sbagliare e non essere criticati è non fare nulla, possibilmente non uscendo di casa e sconnettendosi dal computer.
La seconda: la politica è una cosa meravigliosa perché ti permette di avvicinarti ai cuori delle persone, capire i loro sogni, ricaricarsi delle loro energie per tracciare la roadmap di come l’Italia potrebbe diventare non più solo il Paese più bello del mondo, ma anche il più vivibile.
La terza: le donne hanno moltissimo da apportare, ma per farlo devono saper puntare i piedi, sedersi al tavolo delle negoziazioni e pretendere di essere ascoltate, non solo in quanto brave e capaci, ma anche in quanto rappresentanti di interessi, necessità e risorse che non possono essere intesi come di nicchia, perché riguardano metà della popolazione.
Come donna e attivista politica di sinistra credo quindi che il Job Act di Matteo Renzi abbia un ottime potenzialità, perché punta su trasparenza, riduzione della burocrazia e rinnovamento e può far diventare l’Italia il Paese moderno, dinamico e giusto che meritiamo di essere. A una condizione importantissima, pero’: che metà della popolazione (quella metà, oltretutto, con le migliori performance scolastiche e accademiche) inizi ad essere valorizzata.
Esistono quindi delle misure, perfettamente in tono con lo spirito innovatore del Job Act, che sono essenziali per fare davvero ripartire la nostra economia e devono essere incluse nelle politiche del lavoro del Partito Democratico.
1. Welfare: asili nido e congedo di paternità (vedi le nuove leggi tedesca e francese). Secondo uno studio della Fondazione Collegio Carlo Alberto, la provvisione capillare di strutture pubbliche gratuite per l’infanzia porterebbe al 75,5% l’impiego femminile. Non solo: la provvisione di servizi per l’infanzia ha un effetto positivo sulla fertilità (riducendo il costo opportunità dei figli) e migliora le capacità linguistiche dei bambini, soprattutto di quelli provenienti da settori socio-economici disagiati. Come sta facendo la Francia, poi, è importante prevedere un congedo di paternità obbligatorio non simbolico (per lo meno un mese, magari togliendo un po’ di tempo al congedo materno). Secondo il Dipartimento di Politiche Economiche dell’Unione Europea, il paternity leave agisce non solo sull’occupazione femminile post-maternità (aumentando la probabilità che una donna torni al lavoro del 12%), ma anche su quelle pre- maternità (riducendo il fattore rischio rappresentato per un’impresa dall’assunzione di una donna piuttosto che di un uomo) e hanno un dimostrato effetto positivo sulla fertilità e la promozione dell’uguaglianza nella divisione del lavoro domestico all’interno della coppia.
2. Normatività e incentivi alle imprese women-friendly. Per quanto l’investimento pubblico sia assolutamente necessario, è importantissimo incentivare quelle imprese (grandi, ma anche PMI) che investono nelle donne. In Francia, Spagna e Inghilterra si prevede un labeling delle imprese women-friendly, riconosciuto a livello nazionale come strumento di marketing che talvolta può comportare anche agevolazioni fiscali e punti addizionali nelle gare pubbliche. In Svezia, Finlandia e Irlanda il governo promuove un incontro annuale con le parti sociali per fare il punto della situazione sulle pari opportunità e proporre degli obiettivi annuali. Nel campo delle pari opportunità di genere, come in altri, insomma, il futuro è nella condivisione delle responsabilità e dei costi tra settore privato e pubblico. In Italia, esistono varie imprese che stanno lavorando in modo innovativo in questo senso: Microsoft, Cisco, Luxottica e Nestlè sono quelle con programmi migliori per la conciliazione. Alcune delle best practices utilizzate sono: nidi aziendali, possibilità di lavorare in modo flessibile (con performance basata sui risultati, più che sul numero di ore spese in ufficio), attività nelle università e scuole dove si fomenta l’interesse di ragazzi e ragazze nei confronti delle imprese (e nel caso di CISCO, in particolare delle ragazze per il settore informatico), mentorship femminile.
3. Smart-Working. Applicare l’ottima proposta portata avanti da Alessia Mosca e altre su questo tema.
4. Basta discriminazione. Creare un Ombusdman sul modello scandinavo (come proposto dal comitato sui diritti delle donne del parlamento europeo) per le pari opportunità. Nei confronti dell’esecutivo e del legislativo, l’Ombudsman avrebbe capacita di suggerire politiche e realizzare un “gender mainstreaming” delle proposte di legge in parlamento qualora applicabile. Nei confronti dei cittadini, sarebbe garante della flex security per quanto concerne le discriminazioni di genere, monitorando l’applicazione delle politiche esistenti, ricevendo lamentele e fungendo da mediatore per le dispute. Rendere poi illegale la pratica del CV con foto, età e stato civile, che penalizza fortemente le donne in età riproduttiva. CV di questo tipo sarebbero inaccettabili negli Stati Uniti e in molti paesi europei. In Francia, per esempio, alcune imprese chiedono ai candidati che presentino CV anonimi per le prime fasi della selezione dei candidati, al fine di garantire equità.
Questa sarà davvero la volta buona per dare una svolta al Paese solo se la nostra economia smetterà di essere come una bicicletta che cerca di andare avanti, anche in salita, con una gomma (quella a pi ù alto rendimento) sempre sgonfia.
Le donne devono poter salire a bordo e mettersi alla guida e per farlo hanno bisogno di politiche economiche e del lavoro che smettano di discriminarle, direttamente o indirettamente. La politica ha un ruolo essenziale in questo contesto perché, come sostenuto da Daniela Del Boca e altre economiste in Valorizzare Le Donne Conviene: “La causa della stasi, negli ultimi decenni, delle rivoluzioni delle donne italiane è forse dovuta al fatto che la rivoluzione nella politica non è ancora cominciata”.
Chissà che finalmente non sia davvero cominciata, questa rivoluzione.
da Huffington Post 13.01.14