Era forse l’unica grande “riforma strutturale”, per usare un cliché della troika, riuscita all’Italia e all’Europa nell’ultimo decennio. Per lo più, in silenzio. I rapporti della Commissione di Bruxelles, della Banca centrale europea o del Fondo monetario in proposito tacciono. I politici non l’hanno neanche vista arrivare. Eppure era una svolta più importante per la prosperità del parametro deficit-Pil o dello stesso dato sulla crescita. Semplicemente, facevamo qualche bambino in più. Il tasso di fertilità, il numero di figli per donna, era cresciuto nell’ultimo decennio un po’ ovunque in Europa. In Italia era passato da 1,2 a 1,4. Ancora insufficiente, ma stavamo pian piano diventando una nazione e un continente meno vecchi di come rischiamo di essere.
Ci provavamo, almeno. Il problema è che Lehman, la Grecia, lo spread e la recessione più profonda della storia dell’Italia unita in tempo di pace, hanno riportato indietro le pagine del calendario. Lo spread ora sarà sì tornato dov’era due anni e mezzo fa, ma la natalità nel frattempo è arretrata di decenni. I nuovi nati in Italia erano 576 mila nel 2008 ma sono scesi di 42 mila unità nel 2012 e, sostiene il demografo Gianpiero Della Zuanna e cinque anni dopo l’inizio della grande crisi, nascono 70 mila bebè in meno. E poiché gli esperti sostengono che la demografia è destino, cioè innesca onde lunghe poi difficili da arrestare o anche solo da deviare, sia l’Italia che l’Europa oggi hanno davanti a sé una trasformazione radicale. È la crisi silenziosa di cui i bollettini per i mercati finanziari non danno conto, ma dovrebbero. Perché ciò che accade riguarda anche loro, e soprattutto ogni cittadino d’Europa: i cicli delle nascite e dell’invecchiamento da oggi al 2045 daranno forma a un mondo nel quale alcune delle potenze economiche di questo inizio secolo riveleranno piedi d’argilla e fra i Paesi avanzati si scatenerà una competizione senza sconti per attrarre i migranti migliori: quelli istruiti, capaci di produrre le tecnologie necessarie a una popolazione occidentale sempre più anziana.
Qualche dato dà la dimensione del cambiamento alle porte. Secondo il McKinsey Global Institute, che lavora su dati Onu, fra il 2010 e il 2025 l’Asia aumenta fino a 4,3 miliardi di persone, crescendo di mezzo miliardo: in soli 15 anni, è un balzo pari circa all’intera popolazione dell’Unione europea. La Nigeria, dove quasi metà degli abitanti oggi sono bambini, tra poco più di trent’anni raggiungerà gli Stati Uniti e diventerà il terzo Paese più popoloso al mondo dopo India e Cina, con quasi 400 milioni di abitanti. In base alle proiezioni dell’Onu, i nigeriani cresceranno a 900 milioni entro fine secolo: tutto in un Paese grande poco più del Texas e indebolito dal collasso delle istituzioni, dal terrorismo islamico di Boko Haram e dall’incapacità di creare occupazione per i quasi tre milioni di adulti che ogni anno entrano in età da lavoro.
Anche in Europa le gerarchie fra Paesi e le strutture sociali al loro interno diventeranno quasi irriconoscibili in poco più di una generazione. L’Italia è solo un esempio di questa metamorfosi. Secondo il Vienna Institute of Demography, senza l’apporto degli stranieri la popolazione nel Paese scenderebbe da 60,5 a 53 milioni entro metà secolo. La Fondazione Leone Moressa di Mestre calcola (su dati Istat) che l’apporto dei migranti in Italia è sempre più essenziale: le nascite di figli di stranieri sono salite di un quarto negli ultimi sei anni (mentre gli italiani calavano), oggi rappresentano più del 15% del totale e in futuro il loro peso non può che salire costantemente. Sono già e diventeranno sempre più indispensabili per la tenuta del debito e del sistema previdenziale italiano, oltre che per garantire energie giovani in un mondo del lavoro che invecchia. Nella semi-paralisi demografica, sviluppi di questo tipo sono destinati a porre ben presto nuove domande su chi avrà diritto al voto e allo status di cittadino italiano.
Anche il rango relativo dei vari Paesi europei è destinato a cambiare per la diversa fertilità delle donne francesi, tedesche, britanniche e italiane. Oggi la Germania è il Paese più popoloso della parte Ovest del continente (circa 82 milioni di abitanti), seguito da un gruppo con Francia (63 milioni), Gran Bretagna (62) e Italia. Tra trent’anni invece, la proiezione Onu a tassi di fertilità costante presenta un quadro stravolto: primi Francia e Regno Unito a circa 72 milioni di abitanti, terza la Germania a 71, quarta e staccata l’Italia a 57. Non che le graduatorie abbiano importanza in sé, però sono una spia del dinamismo economico perché le tendenze demografiche rivelano molto della quota di persone in età da lavoro in ciascun Paese. È qui che alcune delle nazioni più produttive di inizio secolo tradiscono la loro fragilità. Fra i sistemi vulnerabili c’è certo l’Italia, che resta ancora la seconda economia manifatturiera d’Europa e la quinta al mondo (con la Corea). Per una volta però il caso più preoccupante non è a Sud delle Alpi. È in Giappone, dove il collasso della natalità e la chiusura agli immigrati (1% dei residenti) sta producendo una catastrofe silenziosa. Tra il 2010 e il 2025 l’Arcipelago perde appena tre milioni di abitanti — stima McKinsey — ma ogni anno la popolazione in età da lavoro si riduce di oltre 700 mila persone, semplicemente perché il Paese invecchia. È la più grande emorragia di manodopera — gli adulti fra i 15 e i 65 anni — mai vista in tempo di pace. Simili le dinamiche per la Germania, dove ogni anno fra il 2010 e il 2025 si consuma una riduzione di oltre 350 mila persone nella fascia 15-65. E in Italia? L’erosione di abitanti nel pieno delle forze è di 93 mila individui l’anno. Nel frattempo, una natalità oggi più elevata permette alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti di veder crescere i suoi abitanti potenzialmente più produttivi rispettivamente di 50 mila e 700 mila persone l’anno.
È il “dividendo demografico”, nella definizione di Robert Gordon della Northwestern University. Esso è davvero tale e aiuta un Paese a crescere in modo quasi automatico quando la popolazione attiva aumenta. È successo anche all’Italia, passata da 45 a 60 milioni di abitanti nella seconda metà del ‘900. Poi però il dividendo si rovescia e diventa freno allo sviluppo quando la popolazione attiva inizia a calare.
Sono queste tendenze a preannunciare la nuova gara del ventunesimo secolo fra le nazioni dell’Occidente: quella per i talenti stranieri, da conquistare con il fascino delle università e le prospettive di lavoro. Molti Paesi in cui ingegneri, medici, insegnanti, ricercatori, informatici, artigiani o operai specializzati andranno in pensione dovranno (anche) importarli per non impoverirsi. Il rischio, in alternativa, è mandare decine di migliaia di specialisti ai giardinetti ogni anno e attrarre solo manovali o badanti. L’intera società diverrebbe più povera, in reddito e conoscenze. Poco prima di morire, Steve Jobs disse a Barack Obama: «Dovremmo spillare una carta verde al diploma di ogni studente straniero che si laurea in scienza o ingegneria in America». Il presidente Usa annuì, poi non fece nulla. Neanche in Italia il visto di studio di un immigrato con un master al massimo livello dà diritto al lavoro. Massimo Livi Bacci, il più autorevole demografo italiano, pensa che la capacità del Paese di accogliere migranti di qualità sia vitale, ma per questo servono università, imprese e un sistema di regole che premino di chi lavora meglio e di più.
Non che l’Italia abbia esaurito il suo “dividendo demografico” autoctono, al contrario. Gianni Toniolo, economista della Luiss e della Duke University, osserva come la capacità dei settantenni di generare reddito oggi sia molto maggiore rispetto a una generazione fa. “Questa è una buona notizia”, ricorda. Anch’essa però comporterà alcune trasformazioni nella vita di tutti i giorni: gli anziani attivi dei prossimi decenni richiederanno strumenti adatti a loro, ad esempio automazione in casa, in ufficio o in fabbrica per muovere più oggetti con un telecomando e non a forza di braccia. È possibile che i Paesi con i capelli bianchi saranno meno consumisti e finiscano in deflazione cronica dei prezzi come già oggi accade al Giappone. Ma è certo che avranno bisogno di politiche, competenze e prodotti nuovi. Vince, come sempre, chi lo capisce per primo.
La Repubblica 13.01.14
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“Da noi niente aiuti alla famiglia più figli se il welfare funziona”, di Maria Novella De Luca
Eppure la voglia di fare figli ci sarebbe. Basta chiederlo ai giovani. A vent’anni affermano sicuri che avranno una famiglia, a trenta iniziano a rinviare, a trentacinque senza lavoro e senza welfare scatta l’addio al desiderio: si fa un unico figlio o si rinuncia a diventare genitori». Alessandro Rosina, docente di Demografia all’università Cattolica di Milano, ha dedicato saggi e studi al grande tema delle “culle vuote” in Italia, a quel calo progressivo di natalità che oggi sembra aver raggiunto l’apice nel nostro Paese, l’anno zero della fecondità. Un declino che ha radici lontane, già sintetizzato da Rosina nel saggio “Famiglie sole” , ma che oggi con la crisi economica sembra aver congelato la voglia di futuro delle giovani coppie italiane.
Professor Rosina, i dati Istat sono drammatici.
«Se non si rivedono le politiche di sostegno alla famiglia il declino non può che continuare. Perché le difficoltà di oggi si sommano a tutto quello che non è stato fatto ieri, quando già l’allarme demografico era alto: dalla conciliazione ai sostegni ai giovani, dagli asili nido ai part time, dalla flessibilità ai supporti alla maternità».
Però la voglia di famiglia c’è.
«C’è ed è forte, questo è il paradosso. Sono poche le coppie
childfree in Italia, quelle che dichiarano davvero di non volere bambini. Basterebbe cominciare ad investire sul welfare e i figli tornerebbero a nascere». L’intera Europa è attraversata da una forte crisi della natalità. Ma noi siamo agli ultimi posti.
«Le radici di tutto questo risalgono agli anni Settanta, e all’entrata massiccia delle donne nel mondo del lavoro. Mentre in Francia ad esempio per sostenere la demografia si è puntato su asili, scuole, congedi, sgravi fiscali per le famiglie, l’Italia è rimasta immobile».
Con il risultato che in Francia la demografia ha continuato a crescere.
«Infatti. E la stessa Germania che ha vissuto un invecchiamento simile a quello italiano, prima ha puntato fortemente sulla formazione dei propri giovani, poi è diventata una nazione attrattiva per l’immigrazione non solo di basso ma anche di alto livello. E negli ultimi anni ha radicalmente modificato il proprio sistema di ausili alla natalità. E lì dunque i bambini torneranno a nascere».
Da noi invece…
«In Italia dopo il baby boom, quando la società è cambiata, c’è stata una reazione conservatrice. L’entrata nel mercato del lavoro delle donne è stata boicottata in tutti i modi. A cominciare dalla mancata creazione di sostegni per la maternità, che ha messo le coppie, e soprattutto le madri, di fronte alla necessità di scegliere tra i figli e il lavoro ».
Si voleva difendere il modello patriarcale?
«Ci sono più ragioni. La prima è storica: quando è iniziato il calo demografico evocare la natalità voleva dire evocare il fascismo e il “dare figli alla patria”. La morale comune ha poi condannato il lavoro delle donne considerandolo un elemento di instabilità coniugale, e di perdita di autorevolezza del maschio».
Con quale risultato?
«Senza supporti la famiglia si è indebolita, il lavoro femminile non ha avuto l’apporto del welfare e la demografia è crollata. Nel 1965 nascevano un milione di bambini l’anno, oggi soltanto cinquecentomila. Ci stiamo avvicinando al minimo storico di culle vuote del 1995, quando il tasso di fertilità era di 1,2 figli per donna. Oggi siamo fermi all’1,4, ma potremmo scendere di nuovo».
Perché non si è fatto nulla per invertire la tendenza?
«Si è sempre colpevolmente pensato che il modello di famiglia italiana potesse bastare a se stesso, la rete parentale al posto dello Stato. Un comodo modo per non investire risorse».
Così oggi sono sempre di più i giovani che emigrano per riuscire a lavorare, e poi scoprono che all’estero è anche possibile formarsi una famiglia.
«E la perdita per il nostro paese è doppia: se ne vanno i giovani, fuggono i cervelli, e i bambini nascono altrove».
Il grande esodo dei “millennials”.
«Che invece avrebbero una gran voglia di restare qui, di costruire e di cambiare le cose. Emerge da tutti gli studi, da tutte le statistiche. Ma la politica, purtroppo, sembra cieca e sorda a tutto questo».
La Repubblica 13.01.14