A tenerli insieme ci sono il passaporto e una bandiera. A dividerli quasi tutto il resto. Lingua e tradizioni, ostacoli naturali e colore degli occhi. E, più in profondità, anche il patrimonio genetico: tutto il codice nascosto tra le eliche del Dna e destinato a passare di padre in figlio. Eccoli qua, i 57 diversi tipi di italiani. Diversi tra loro più di quanto lo siano uno spagnolo e un ungherese. Siamo il Paese con la biodiversità umana più estesa d’Europa e a ricordarcelo ora c’è uno studio specifico, che ha coinvolto quattro atenei: la Sapienza di Roma insieme alle università di Bologna, Cagliari e Pisa.
Il lavoro è partito nel 2007 e ha unito genetica e antropologia. Da una parte, la raccolta di campioni di saliva, poi catalogati e confrontati, nei luoghi più isolati d’Italia. Dall’altra, di pari passo e incrociato, un meticoloso studio linguistico, culturale ed etnografico. «Abbiamo sfruttato l’aspetto genetico per mostrare in tutta la sua ricchezza la diversità umana del nostro Paese», spiega Giovanni Destro Bisol, antropologo della Sapienza che ha coordinato il team di scienziati.
«In pochi sono a conoscenza di questo patrimonio. Pochi sanno che esistono comunità d’origine croata tra Abruzzo e Molise, oppure che ci sono dodici minoranze linguistiche italiane tutelate dalla Costituzione».
Guardando ai geni, i ricercatori hanno posato la loro lente su due elementi: il Dna mitocondriale, ereditato esclusivamente per via materna, e il cromosoma Y, localizzato nel nucleo delle cellule ma ereditato solo nella linea maschile. «Sono due indicatori molto sensibili, che tengono traccia anche di variazioni ed evoluzioni recenti spiega l’esperto ma l’unicità italiana dipende molto dalla geografia: in un Paese lungo e stretto, con una miriade di habitat diversi, la biodiversità umana non è meno accentuata di quella che riguarda piante e animali».
In gran parte dei casi, è stata la combinazione tra isolamento geografico e linguistico a proteggere l’unicità di popolazioni che ancora oggi risultano diversissime persino da quelle confinanti.
«In Europa – conclude Destro Bisol – un melting pot comparabile c’è solo nei Paesi balcanici. Pensi che, messe insieme, le minoranze presenti sul territorio sono il cinque per cento degli italiani. Sono comunità sempre più piccole, che tendono a spopolarsi e vivono la loro identità con intensità e orgoglio. Ma anche con la profonda consapevolezza di essere parte della stessa nazione».
La Stampa 11.01.14
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“Un’eredità genetica che ci fa ricchi”, di Marco Malvaldi
La biodiversità tra le diverse popolazioni italiane è il segnale di un passato glorioso: un passato in cui, favorito dalla geografia, il Paese era un autentico crocevia dei popoli, delle culture e delle ricchezze del mondo. Così, un tempo, forti della nostra importanza, importavamo ricchezza genetica, con i metodi più diversi.
Talvolta accoglievamo, talvolta schiavizzavamo, altre volte ci invadevano. Spero sinceramente che
noi italiani tutti, eredi di questo rutilante patrimonio genetico, non facciamo l’errore di fare sfoggio in modo molto italico di tale diadema: facendo vedere al resto d’Europa la nostra incredibile varietà genotipica, frutto come si diceva di un glorioso tempo che fu, mentre intanto il presente va a rotoli. Avere un patrimonio intrinseco così vasto è un’ottima base di partenza; però, a chi fosse convinto che la genetica basti a garantire ottime prospettive, vorrei rammentare un piccolo esempio.
Nel 2003, alcuni ricercatori annunciarono di aver scoperto il segreto della velocità degli sprinter giamaicani. Il nocciolo della scoperta risiedeva nel fatto che particolari variazioni in un gene chiamato Actn3 favorivano la funzionalità delle fibre muscolari «veloci», e che il 98% circa della popolazione giamaicana mostrava tale variazione. Molto interessante, no? Peccato che ulteriori ricerche abbiano mostrato che i keniani (i quali, pur mietendo allori da decenni nelle competizioni di lunga durata, non hanno mai vinto nemmeno una gara condominiale sulle gare veloci) hanno una frequenza di tale variazione superiore a quella dei giamaicani stessi. Il fatto che gran parte della popolazione keniana corra più di dieci chilometri al giorno tutti i giorni per andare a scuola, evidentemente, deve avere qualche importanza. (Attenzione: le righe che precedono sono ispirate dalla convinzione che la diversità genetica sia ricchezza e che nella biodiversità risieda intrinsecamente la robustezza di un ecosistema. Se qualcuno pensasse il contrario, temo ci voglia ben altro che un articoletto del Malvaldi per cambiare idea).
La Stampa 11.01.14