Il cittadino comune che, in questi giorni, legge i giornali e guarda la tv sta passando momenti di grande sconcerto. Da una parte, vede la classe politica occuparsi sostanzialmente di tre argomenti: la discussione su una nuova legge elettorale tra modello spagnolo modificato, Mattarellum risuscitato e un sindaco nazionalizzato, l’ipotesi di un rimpasto di governo e la scommessa su quando Renzi riuscirà a prendere il posto di Letta.
Dall’altra, avendo la fortuna (?) di possedere una casa ha perso ogni speranza di capire se, quando e quanto dovrà pagare per misteriose sigle e aliquote di tasse sull’abitazione che, ogni giorno, si annunciano diverse. Il suo sconforto aumenta, poi, quando lo stesso commercialista di fiducia si dimostra confuso, giustificando il suo smarrimento per aver contato, negli ultimi mesi, ben 38 modifiche sulla legislazione per la casa e sapendo che, nelle prossime settimane, questo record sarà sicuramente battuto. Per l’aggiornamento sulle ultime notizie, infine, gli viene comunicato dall’Istat che, tra i disoccupati, i giovani in Italia sono il 41 per cento. Vuol dire che se il suddetto cittadino comune abita in Meridione può prevedere che per suo figlio quella percentuale si alzi al 70-80 per cento.
Il distacco tra gli interessi, i problemi, le preoccupazioni degli italiani e la cosiddetta agenda di governo e Parlamento sta diventando davvero enorme. Anche perché l’impressione è che la classe politica discuta, polemizzi, si divida su questioni che hanno ben poco rapporto con la concreta realtà. Prendiamo, ad esempio, l’argomento che più ha caratterizzato l’inizio d’anno: la riforma elettorale. Renzi, come vogliono del resto tutti gli italiani, vuole una legge per la quale si sappia, la sera stessa dello spoglio dei voti, chi sarà il nuovo presidente del Consiglio e quale sarà la maggioranza sulla quale potrà contare. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che, con l’attuale bicameralismo, nessun sistema elettorale garantisce maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento. Prima, perciò, bisognerebbe riformare la Costituzione su Camera e Senato e, quindi, anche se si trovasse un accordo tra i partiti, ci vorrebbe almeno un anno perché possa essere approvata una simile riforma. Non esiste la probabilità, perciò, che si possa andare a nuove elezioni nel corso del 2014 e tutte le elucubrazioni che in questi giorni si fanno a tale proposito sono assolutamente inutili.
Si era sostenuto che il passaggio dalle cosiddette «larghe intese» alle cosiddette «ridotte intese» avrebbe favorito la coesione della maggioranza e, quindi, una maggiore efficacia e rapidità delle decisioni governative. La farsesca vicenda sugli stipendi degli insegnanti dimostra che quelle speranze erano piuttosto illusorie, perché i contrasti, le incertezze, le retromarce si sono trasferiti, dai partiti, addirittura ai ministri. Al di là della figuraccia, quello che colpisce e amareggia è un metodo di governo che affastella annunci su annunci, molte volte contraddittori e che non rispetta le elementari regole nei confronti dei cittadini, i quali hanno diritto di conoscere, con la massima chiarezza e con sufficiente anticipo di tempi, le disposizioni in materia di leggi, soprattutto di quelle tributarie. Tutte le promesse sulle sbandierate semplificazioni si sono sempre scontrate con una realtà applicativa del tutto deludente. Nell’esperienza quotidiana degli italiani l’oppressione burocratica e le incertezze interpretative sono aumentate e non sono affatto diminuite negli ultimi mesi.
Se la classe politica parlasse meno di riforma elettorale, di rimpasto, dei duellanti Renzi e Letta, forse, potrebbe occuparsi con maggior profitto, ad esempio, del problema che annuncia il vero, prossimo declino dell’Italia nel mondo, legato non tanto al valore dello spread e neanche al nostro enorme debito pubblico, ma al dramma dell’emigrazione forzata dei migliori giovani del nostro Paese.
Ogni cittadino italiano paga, per la formazione scolastica e universitaria, una quota notevole delle tasse che versa allo Stato. Soldi ben spesi perch é l’investimento ha una resa soddisfacente. Nonostante le scarse risorse, le note difficoltà, le modeste soddisfazioni professionali ed economiche dei professori, dalle nostre scuole e dai nostri atenei escono ragazzi con una preparazione molto apprezzata all’estero. Così, da anni ormai e con ritmi sempre più frequenti, i migliori giovani italiani, ricercatori, medici, professionisti, ma anche tecnici, l’ipotetica futura classe dirigente del nostro Paese, è costretta a cercare lavoro in terra straniera. Una selezione di cervelli migranti che avviene per merito, ma anche per classe, ingigantendo un’ingiustizia sociale che costituisce un vero tradimento ai principi di uguaglianza proclamati nella nostra Costituzione. Poiché alti stipendi e valorizzazione delle capacità premiano le carriere di questi nostri giovani all’estero, ben pochi pensano di ritornare a lavorare in Italia, anche perché le esperienze umilianti di coloro che, per varie ragioni, hanno avuto il coraggio di farlo, sconsigliano un così deludente rimpatrio.
Si può essere fiduciosi nel futuro dell’Italia se la parte migliore e più fortunata degli italiani è costretta ad abbandonarla? È quella che, a scuola, definivano una domanda retorica, perché la riposta, purtroppo, è una sola: no.
La Stampa 09.01.14