Il Toscano penzola dall’angolo destro della bocca, il sorriso s’intuisce da quello sinistro arricciato all’insù, ma soprattutto dagli occhi, un po’ strizzati: «Oggi è il giorno di Renzi, non dico niente». E via dal padiglione della Fiera di Milano, anche se la verità è che già da un po’ ha scelto di non dire niente. Metà dicembre, prima Assemblea nazionale Pd dell’era Renzi, l’anno si va chiudendo e il bilancio per Pier Luigi Bersani non è dei migliori.
La «non vittoria» alle politiche di febbraio, i franchi tiratori e la banda dei 101 nel passaggio del Quirinale, le dimissioni da segretario tanto sofferte quanto inevitabili. E poi i mesi passati a cercare di «dare una mano» alla «ditta», stando però attento a non appari- re troppo e al tempo stesso non ritirandosi mai veramente dall’attività politi- ca. Comunque. Anche quando la «ditta» viene sempre meno sentita tua, anche quando si fa fatica a riconoscerla.
Il 2012 sì che si era chiuso bene, con la vittoria alle primarie «non contro, ma con Renzi». «Un grazie a Matteo» è la prima frase che Bersani fa in un affollato Teatro Capranica in quella notte del 2 dicembre. Bandiere che sventolano, entusiasmo, ottimismo. L’ottimismo di chi è convinto di aver trovato una parte di quel «senso» iniziato a cercare con le primarie del 2009, che lo hanno incoronato segretario del Pd. L’ottimismo di chi ha ap- pena ricevuto l’investitura a candidato premier da tre milioni di persone e ora si prepara ad affrontare una campagna elettorale tutta in discesa.
Ma così in discesa non è, se il ritmo giusto non si trova, se gli ostacoli che dovevano essere superati in fretta so- no sempre lì davanti a dar fastidio. O forse lo è troppo, e il piede va in fallo, qualche scivolata fa davvero male. Berlusconi ancora una volta conferma di dare il meglio nella campagna elettorale, il «giaguaro» invece di essere «smacchiato» gli cade addosso con tutta la pesantezza di un peluche sbucato dal salotto di Vespa. Grillo si muove su e giù per l’Italia riempiendo piazze, fino alla chiusura col botto a San Giovanni, luogo simbolo della sinistra stavolta ceduto all’avversario senza colpo ferire.
E poi ci sono gli alleati e i nemici dei nemici, che non sempre sono amici. L’abbraccio con Vendola, ma stando attento a non rompere con Monti, perché quando si governerà (quando si governerà) ci sarà da affrontare «la crisi più grave dal dopoguerra» e solo potendo contare sullo schieramento più ampio possibile si potranno affronta- re le sfide. Gli amici più stretti, i consiglieri più ascoltati, i collaboratori più fidati, tutti gli consigliano una campagna dai toni pacati, niente strappi o effetti speciali, c’è solo da gestire un consenso già incamerato e aspettare il buon risultato di lunedì 25 febbraio. Insomma è una strategia «non tirar fuori conigli dal cilindro», non è che fosse «un po’ spompo», come dirà in estate Renzi, col quale aveva organizzato tre tappe (Firenze, Torino e Palermo) di campagna elettorale che non hanno lasciato troppo il segno. Anche l’appuntamento con i leader dei parti- ti socialisti europei, che l’anno prima a Parigi era servito a lanciare la volata a Hollande per l’Eliseo, si svolge senza troppo clamore (nonostante alla fine entri anche un videomessaggio del presidente francese) e con un carattere quasi seminariale.
La chiusura della campagna elettorale Bersani la fa stretto tra la platea e il palco del teatro Ambra Jovinelli, con militanti e simpatizzanti che si ritrovano costretti fuori, sotto una pioggerella fastidiosa, mentre dentro Nanni Moretti annuncia il suo voto per il Pd «nonostante lo slogan del giaguaro» e «ma questa volta approvatela la legge sul conflitto d’interessi», che magari voleva essere d’aiuto e però l’effetto è quello che è. Sabato in famiglia. I sondaggi dell’ultima ora sono strani.
«Governo e cambiamento vanno tenuti insieme, e il Pd è l’unico partito che può farlo». Domenica 24 febbraio, intervista a l’Unità. C’è la consapevolezza che la campagna elettorale «non è riuscita a svolgere il tema, che è co- me usciamo dalla crisi». E quella che a determinare il risultato sarà la percentuale ottenuta da Grillo: «Le sue parole d’ordine, le sue proposte sono totalmente destabilizzanti e irrealistiche, propagandistiche e oniriche». Ne ha incontrate di persone che votano Grillo, in queste settimane? «Certo, molte anche giovani». E cos’è che gli ha detto? «Che con loro sono pronto a discutere di tutto, che io sono il primo a pensare che in questo Paese ci sia molto da cambiare». Dirà lo stesso ai parlamentari del Movimento 5 Stelle. «Ma certo».
La notte del 25 febbraio è più fredda del previsto. «Non abbiamo vinto, nonostante siamo arrivati primi». E allora quella discussione con i Cinquestelle va avviata subito, partendo da proposte a cui non possono dire no, come quella sulla scelta di Boldrini e Grasso a presidenti di Camera e Senato, o sugli «otto punti» (dalle norme sul lavoro alla legge sul conflitto di interessi) attorno a cui far lavorare un «governo di cambiamento». Ma la strategia fallisce. E la diretta streaming delle consultazioni chiesta e ottenuta dai Cinquestelle serve solo a mostrare l’inutilità di interloquire con quegli interlocutori. Seguono giorni confusi in cui neanche i costituzionalisti sono d’accordo, se Bersani abbia ottenuto dal Quirinale un incarico, un preincarico, un incarico condizionato. Ma questo non è niente, in confronto a quello che sta per succedere. Perché a metà aprile c’è da eleggere il nuovo presidente della Repubblica.
I franchi tiratori che affossano la candidatura di Marini e i 101 che impallinano Prodi è la pagina più raccontata e meno capita del post voto, la più discussa e la meno chiarita. È la pagina che per Bersani si chiude con una sola parola: dimissioni. «Messi di fronte alla prima vera responsabilità nazionale da quando siamo nati, abbiamo mancato la prova». È ancora un’intervista a l’Unità, la prima dopo il passo indietro. Proprio sul passaggio del Quirinale «nell’inconsapevolezza di tanti di noi è tramontata la possibilità di un governo di cambiamento», dice puntando il dito contro «l’irrompere di ritorsioni e protagonismi spiccioli». Se li è caricati sulle spalle, insieme all’effetto che hanno prodotto, e si è tolto dalla testa del Pd.
Il passaggio del testimone a Guglielmo Epifani, lo schierarsi con Gianni Cuperlo, la partita congressuale giocata in modo defilato. Uscite sempre più rare, senza però far mancare la sua voce quando serve. Come alla vigilia del- le primarie dell’8 dicembre, quando si teme un mezzo flop ai gazebo e Bersani lancia un appello alla partecipazione nonostante sia chiaro a tutti che più saranno i votanti e più sarà alta la percentuale di Renzi. E più concreto il rischio di vedere la «ditta» cambiare forma, sbiadirsi dietro all’«uomo solo al comando». O forse no. Forse, come dice la notte del 2 dicembre del 2012, «dobbiamo avere fiducia nella nostra gente». Comunque. Anche quando il «senso» non è quello previsto, indicato, cercato.
E poi ci sono le volte in cui «un senso» non sembra esserci affatto. Come ora. Come è sempre con storie come questa. Ma Bersani ci ha fatto lo slogan delle prime primarie che ha vinto, affidandosi al suo amato Vasco Rossi. «Voglio trovare un senso a questa storia, anche se questa storia, un senso non ce l’ha».
L’Unità 06.01.14