IL 23 dicembre, ultimo giorno di lavoro alla Camera, Bersani non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle il 2013 e rifugiarsi per le vacanze a Piacenza, il luogo del cuore: la sua casa, i suoi affetti, i suoi amici. Con la solita espressione ironica raccontava alcune vicende familiari e rideva, pensando a come affrontare una nuova sfida tutta personale. Così l’ex segretario del Pd si preparava al 2014, chiudendo l’anno delle grandi sconfitte.
E’ arrivato a un passo da Palazzo Chigi quando il 22 marzo Napolitano gli ha affidato l’incarico di formare un governo. Un mese dopo aveva perso tutto: il governo, la partita dell’elezione del presidente della Repubblica, la segreteria del Pd. Il 20 aprile si è dimesso dall’incarico che aveva conquistato nel 2009, ma che era virtualmente concluso già dopo la “non vittoria” del 25 febbraio, alle elezioni politiche. Quel giorno è cominciato il cammino di un uomo che ha provato a imporre il “governo del cambiamento” scontrandosi con i voti degli elettori e un’Italia profondamente mutata dalla crisi e dalla caduta di credibilità della politica.
Dopo l’incredibile pareggio del voto nazionale, Bersani rimane ben 24 ore chiuso nella sua casa al centro di Roma. Un silenzio eloquente. Il suo è un appartamento accessibile solo ai fedelissimi, dove, seduto sul divano, il candidato premier del centrosinistra, scorrendo i dati elettorali, attende fino all’ultimo una sorpresa che non arriva. Sono ore davvero misteriose, solo in parte narrate nel libro che ripercorre l’annus horribilis di Bersani scritto dal portavoce Stefano Di Traglia e dalla direttrice di Youdem Chiara Geloni (Giorni bugiardi). Si cerca una strada per arrivare comunque a una svolta della politica italiana, ma il tentativo è una parete verticale.
Un giorno dopo la fine dello spoglio, Bersani si presenta ai giornalisti con una faccia lunga così e dichiara la “non vittoria” che poi diventerà il mantra sarcastico
dei suoi nemici, soprattutto quelli interni. E’ il rigore sbagliato a porta vuota di cui parla sempre Matteo Renzi, l’avversario che alla fine del 2013 gli prenderà il posto al vertice di Largo del Nazareno. Un’altra sconfitta perché Bersani quel ragazzo fiorentino non lo ha mai amato. Meglio, non si fida, non lo considera leale. Ne ha una prova quando il fedelissimo renziano Graziano Delrio propone un governo di larghe intese con il centrodestra nel pieno delle montagne russe percorse da Bersani per convincere Grillo, Berlusconi e la Lega a far partire un governo guidato da lui.
Ma le ore e i giorni drammatici del 2013 sono davvero tanti. Un’intera esperienza politica consumata nel giro di dodici mesi. Il 25 febbraio ha la conferma di aver sottovalutato il fenomeno Grillo e di aver sbagliato la campagna elettorale. Il 18 aprile: quando Franco Marini viene impallinato sul sentiero del Colle dai parlamentari del Pd e il massimo della vendetta di Bersani per questo primo tradimento sarà una frase pronunciata dopo un discorso dell’ex presidente del Senato: «Nessuno mi convincerà che non sarebbe stato un grande capo dello Stato». Il 19 aprile, l’affondamento: viene travolto anche Prodi da 101 franchi tiratori dopo che una riunione democratica si era conclusa con l’acclamazione per il Professore. E’ chiaro: il bersaglio è anche Bersani, che annuncia le dimissioni non prima di aver condotto in porto il bis di Napolitano.
Poi arrivano le larghe intese. Bersani ci crede poco ma è legato da un vincolo di fedeltà a Enrico Letta. Loro sono una «coppia di fatto», come dice sempre l’ex segretario, e la lealtà non viene mai messa in discussione. Anche per questo Bersani si fa da parte. Non disturba il manovratore. Partecipa alle feste dell’Unità, gradisce i cori “c’è solo un segretario”, spiega e rispiega la fine della sua avventura per Palazzo Chigi, ammette gli errori («aver sostenuto fino all’ultimo Monti, aver sottovalutato la frattura sociale che ha dato fiato ai 5stelle»). Puntualizza: non mi sono sentito umiliato dalla consultazione con i grillini, come ripete Renzi. Non reagisce agli attacchi personali.
Ma c’è un’altra sfida del 2013: le primarie per la segreteria del Pd. Bersani e D’Alema non si parlano da mesi. Il secondo rimprovera al primo di non averlo candidato al Quirinale, ma soprattutto di essersi piegato alla rottamazione renziana non candidando alcuni big al Parlamento. E’ una rottura profonda. Eppure Bersani, contro Renzi, decide di sostenere il candidato dalemiano Cuperlo. Sarebbe un colpo di testa fare altrimenti e l’ex segretario non è il tipo. Pragmatismo è la sua parola d’ordine, pure troppo. Per questo si aggrappa alla parodia di Crozza che lo rende più umano ma lo inchioda alle metafore in bersanese tipo «smacchiare il giaguaro», condanna della quale non si è ancora liberato.
Bersani si espone poco per Cuperlo, sapendo di fargli un piacere. Di D’Alema ha sempre detto: «Il suo pregio? Che ci mette la faccia. Il suo difetto? Che ce la mette troppo». Lui non commette lo stesso errore. Però Cuperlo subisce una sconfitta storica che travolge anche un pezzo della sinistra e della sua storia. E Renzi stravince dopo aver straperso contro di lui un anno prima. Scompare la «ditta», altra similitudine dell’ex segretario, sostituita da nuovi linguaggi, nuovi volti. Oggi però la «ditta», dal segretario in giù, torna unita e si stringe intorno a “Pierluigi”.
La Repubblica 06.01.14