A un anno dalla legge solo 38 prefetture su 105 hanno gli elenchi delle imprese per gli appalti puliti.̀ . E’ sconcertante il sito della prefettura di Reggio Calabria, lì per lì si apre il cuore: il sito reggino è l’unico, sulle cinque province calabresi dove la ‘ndrangheta è un virus endemico, in cui è presente la White list delle imprese che possono dichiarare di non avere subito infiltrazioni mafiose. Imprese fornitrici a cui i vincitori di a palti pubblici possono rivolgersi senza timore di brutte sorprese. Però, quando apri il file lo trovi vuoto. A un anno dalla approvazione della legge «per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione», a sei mesi dalla pubblicazione sulla gazzetta ufficiale del decreto attuativo, a cinque dall’entrata in vigore dell’obbligo di istituire gli elenchi, l’operazione «White list» sembra essere un vero e proprio flop. L’osservatorio sulla legalità della Fillea Cgil ha realizzato un monitoraggio dal quale risulta che «su 105 prefetture, solo 38 hanno pubblicato gli elenchi, in 3 prefetture le White list non vengono neanche menzionate». Ed è impressionante che proprio nei territori a maggior rischio di infiltrazione mafiosa, camorristica, ’ndranghetista le White list mancano quasi del tutto: in Sicilia solo nella provincia di Enna c’è una lista consultabile, in Campania, su cinque province, c’è una sola ditta iscritta, la «Adrenalina srl», ad Avellino. A L’Aquila, dove la White list era stata istituita prima dell’obbligo di legge, per rafforzare i controlli post terremoto, ce n’è una decina, certamente un numero molto al di sotto delle ditte effettivamente coinvolte nei cantieri della ricostruzione. Nel Lazio e in Liguria, due regioni in cui la presenza della criminalità organizzata è in ascesa, il panorama è altrettanto desolante. A Torino una sola ditta ha sentito la necessità di iscriversi. C’è da sperare che, in realtà, le richieste di ingresso nelle White list siano di più ma che, ancora, le prefetture non siano riuscite a fare gli accertamenti necessari. Anche questo, però, dimostra che negli Utg (gli uffici territoriali di governo), se hanno applicato la lettera della legge, non ne hanno capito lo spirito, la pubblicazione della richiesta di accedere al gruppo delle imprese pulite, accompagnata dall’autocertificazione richiesta, sarebbe un passo avanti verso la trasparenza e l’etica d’impresa.
Per le imprese non c’è obbligo (che invece vale per le prefetture che devo- no istituire le liste), l’iscrizione è su base volontaria, eppure le White list dovrebbero rappresentare un vantaggio, un bollettino di qualità capace di influire positivamente sul piano materiale (più facile accesso ai finanzia- menti pubblici, ad esempio) e immateriale, la reputazione è, infatti, un valore d’impresa.
Facciamo un passo indietro, per spiegare l’importanza, nel contrasto della lotta alla mafia, che le White list dovrebbero rappresentare. Le imprese che vincono appalti pubblici hanno l’obbligo della certificazione antimafia, tale obbligo, però, si ferma quando si arriva ai fornitori di beni e servizi: confezione e trasporto di calce- struzzo, movimento terra, nolo, tra- sporto rifiuti a discarica, smaltimento. Tutte attività nelle quali, l’esperienza ha dimostrato, si annidano le illegalità ma che, poiché formalmente non percepiscono denaro pubblico, non sono soggette alla legislazione antimafia. La legge del 2012, spiega il prefetto Bruno Frattasi che, al ministero delle infrastrutture dirige il comitato alta sorveglianza sulle Grandi opere, «ha alzato l’asticella». Ma si è anche cercato di farlo senza appesantire ulteriormente i tempi di avvio di un cantiere: «L’iscrizione a una White list si estende a tutto il territorio e ha il valore di una liberatoria», ogni anno la richiesta va rinnovata, poiché «non può esserci – spie- ga il prefetto Frattasi – una posizione di rendita ». Imprese grandi e piccole lamentano la lunghezza degli adempimenti antimafia ma se le White list funzionassero, non ci sarebbe il problema di aspettare le autorizzazioni e non ci sarebbe il rischio del sopraggiungere, fatte le verifiche, di una «interdittiva» che obbliga a rescindere il contratto con la ditta in odore di mafia, a trovarne un’altra e a ricomincia- re tutto l’iter. Altri benefici, per chi si sottopone alla verifica preventiva, sarebbe un più facile accesso al credito (L’Abi si è dichiarata in linea di principio favorevole al rating di legalità, anche se, brutti e cattivi o belli e buoni, di questi tempi ricevere crediti non è facile per nessuno) e ai finanziamenti pubblici.
L’impressione, dice Salvatore Lo Balbo, della segreteria nazionale Fillea, è che «all’entrata in vigore della legge non corrispondano azioni positive, politiche attive, per implementa- re le nuove norme». La situazione è tanto più preoccupante «se si incrociano i dati sulle White list con quelli dei protocolli di legalità». «Abbiamo sottoscritto – aggiunge Lo Balbo – 92 protocolli in tutta l’Italia, 31 di questi riguardano le grandi opere, eppure proprio in molte delle prefetture che li hanno sottoscritti mancano le White list». In sostanza la collaborazione fra istituzioni, imprese, sindacati per evitare che il denaro pubblico vada a rimpinguare le casse della criminalità organizzata rimane lettera morta, impressa su scartoffie chiuse nei cassetti a prendere polvere. È da capire dove sia l’intoppo, non ci credono le prefetture o non ci credono le imprese? Oppure sono le pubbliche amministrazioni ad essere poco interessate alla pulizia delle aziende che realizza- no le opere?
Sul fronte del contrasto economi- co alla criminalità organizzata, intanto, si sta tentando un’altra strada, complementare ma che potrebbe rivelarsi sostitutiva degli elenchi fin qui creati. Si tratta della banca dati prevista dal codice unico antimafia, a cui, ancora una volta, sta lavorando il prefetto Frattasi. Una volta che la banca dati sarà operativa, ogni pubblica amministrazione, ogni stazione appaltante, potrà accedere e conoscere le caratteristiche delle imprese censi- te, le quali saranno ordinate in tre li- ste distinte, le White, le grey e le black. Il passaggio dall’uno all’altro elenco, sostiene Frattasi, «è il segno di vitalità dell’accertamento antimafia». L’interfaccia delle pubbliche amministrazioni sarà il front office, un back office dovrà, via via arricchire la banca dati già esistente. Può accade- re, infatti, che alcune delle ditte delle associazioni temporanee d’impresa non siano censite ma, alla seconda o terza richiesta di informazioni il data- base sarà aggiornato. Il regolamento è scritto, l’architettura informatica del sito che si potrà avvalere delle altre banche dati, a cominciare da quelle delle forze di polizia, è pronta. Si sta aspettando il parere del garante per la privacy, che dovrebbe arrivare per la metà di gennaio.
Resta da vedere se l’etica d’impresa e la legalità faranno passi avanti nel consenso del paese, perché – senza sollecitazione delle parti sociali – la moneta cattiva scaccia la buona.
L’Unità 04.01.14
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Emilia Romagna, l’eccezione conferma la regola
L’Emilia Romagna della ricostruzione post terremoto è, dal punto di vista delle White list l’eccezione che conferma la regola. C’è infatti una norma del decreto (poi trasformato in legge) per la ricostruzione secondo la quale non può percepire pagamenti o prendere appalti, o ricevere affidamenti, la ditta che non abbia, quanto meno, fatto domanda di iscrizione all’elenco delle «white». Nemmeno in Emilia Romagna c’è l’obbligo che non è richiesto dalla legislazione nazionale. Però la volontarietà è fortemente incentivata dalla disciplina più restrittiva voluta da Vasco Errani in qualità di commissario straordinario alla ricostruzione.
È di due giorni fa la notizia che «quasi 600 ditte, di cui circa 550 con sede in provincia di Modena hanno fatto richiesta di iscrizione. Nelle ultime due settimane sono state inoltrate agli organi investigativi oltre 150 richieste di informazioni che stanno pervenendo e che consentiranno, a breve, in assenza di cause ostative, di iscrivere un ulteriore rilevante numero di aziende».
Il successo dell’Emilia Romagna, ha spinto il governo a valutare l’obbligatorietà dell’iscrizione alle White list e l’ipotesi è allo studio del ministero delle Infrastrutture. La proposta trova, però, i sindacati contrari per una ragione di principio e per una pratica: quella di principio è che un cittadino o una impresa non devono avere l’obbligo di dimostrare preventivamente di essere per bene. La ragione pratica è che sembra più razionale puntare sull’unica banca dati nazionale prevista dal codice antimafia, anziché affidarsi alle diverse prefetture che operano ciascuna in modo difforme dall’altra.
L’Unità 04.01.14