La progressiva demolizione del bipolarismo a opera di Napolitano si corona oggi con tutti i partiti della maggioranza spaccati a metà tra filogovernativi e antigovernativi. (da “Viva il Re!” di Marco Travaglio – Chiarelettere, 2013 – pag. 15)
È un dato di fatto, preciso, incontrovertibile. Il “messaggio del tavolino” di Giorgio Napolitano, trasmesso in tv a reti unificate la sera del 31 dicembre, è stato visto da 9 milioni 991 mila spettatori contro i 9 milioni 702 mila del 2012: 279 mila in più, con un aumento del 2,8%, come hanno già riferito tutti i giornali. Nonostante l’appello al boicottaggio lanciato dal Movimento 5 Stelle e da Forza Italia, il discorso del presidente della Repubblica ha registrato quindi un significativo successo di pubblico. Tanto più che solo sulle reti Rai è stato seguito da 7 milioni 149 mila spettatori, con un incremento di audience del 12,2% rispetto all’anno precedente che ha compensato largamente il calo sulla rete ammiraglia del partito-azienda(-460 mila su Canale 5).
Eppure, all’indomani di Capodanno, il Minculpop grillino ha contestato polemicamente la veridicità di questi dati, sulla Rete e in particolare su Twitter, diffondendo una serie statistica dell’Auditel da cui risulta che nell’arco di otto anni, dal 2006 al 2013, gli ascolti del messaggio presidenziale si sono ridotti dal 66,1% fino al 53,1 (-13%). «La differenza tra audience positiva e share negativa — spiega il sociologo Francesco Siliato — è dovuta al maggior numero di persone presenti davanti a un televisore acceso». E poi bisogna calcolare la flessione di tutta la tv generalista da allora a oggi, a favore degli altri canali televisivi e di Internet, che ha prodotto una contrazione dell’intera “torta”. Da qui, è partita però un’altra valanga di improperi e di insulti ai giornalisti, accusati in massa di essere “bugiardi” o di “falsificare la realtà”.
Faute de mieux, in mancanza di argomenti migliori, i più faziosi sono arrivati perfino a sostenere che il boom dell’audience presidenziale dipende dal fatto che molti si aspettavano l’annuncio in diretta delle dimissioni di Napolitano. Oppure, più banalmente, dalla “consuetudine dell’80% degli italiani di tenere accesa la tv per il discorso a reti unificate”. Ma si tratta, com’è evidente, di modeste “pezze a colori”.
In un Paese in cui la tv — per parafrasare la celebre frase del generale Carl von Clausewitz applicata alla guerra — è diventata la prosecuzione della politica con altri mezzi, non c’è da meravigliarsi più di tanto che l’oggettiva convergenza del populismo mediatico di Berlusconi e della “qualunquologia” picaresca di Grillo (qualunquismo più demagogia) possa produrre un effetto del genere. Questa volta, però, il tele-boicottaggio s’è trasformato in un boomerang per i suoi stessi artefici, “sensibilizzando il pubblico della seconda e terza rete Rai a un ritorno all’ascolto più istituzionale”, come dice ancora Siliato. Ognuno, dunque, può giudicare liberamente se è stato Napolitano a battere Grillo oppure se è stata la televisione a battere Internet, dove il leader del M5S s’è esibito in un comizio elettorale “urbi et orbi”.
Ora si può legittimamente criticare il capo dello Stato per i suoi “strappi”, per le sue scelte presidenzialiste o magari per i suoi errori: fra questi, a parere di chi scrive, l’errore capitale è stato quello di aver “salvato” il governo Berlusconi nel dicembre 2010, concedendogli un mese di tempo che il Cavaliere utilizzò per la sua campagna acquisti in Parlamento, mentre le mozioni di sfiducia presentate da Pd, Idv, Udc e Fli avrebbero potuto già metterlo in minoranza. E si può pure vagheggiare l’impeachment, come minacciano congiuntamente il M5S e la rediviva Forza Italia nel segno di un’alleanza che dovrebbe essere imbarazzante per entrambi, sebbene sia arduo individuare sul piano giuridico l’ipotesi di ”alto tradimento” o di “attentato alla Costituzione” nei comportamenti del presidente Napolitano.
Quello che però non si può fare impunemente è distorcere e piegare la realtà ai propri fini propagandistici. Non è vero che in Italia è vietato criticare il presidente della Repubblica né tantomeno che si commette un “reato di lesa maestà”: basterebbe ricordare le campagne di stampa condotte dal settimanale L’Espresso, prima contro Giovanni Leone e poi contro Francesco Cossiga. A quei tempi, Beppe Grillo frequentava ancora gli studi televisivi della Rai o calcava i palcoscenici dei teatri di varietà, mentre alcuni “pennivendoli” mettevano a rischio il posto e la carriera.
La Repubblica 04.01.14