Sulla riforma elettorale, dal punto di vista del metodo, Matteo Renzi ha iniziato in modo non solo efficace ma anche corretto: offrendo alle forze di maggioranza e a quelle dell’opposizione disposte ad assumersi le proprie responsabilità (ammesso che poi esistano davvero) non una proposta secca da prendere o lasciare, ma un ventaglio di soluzioni tra cui scegliere.
Proposte diverse ma tutte ispirate alla medesima logica di una democrazia governante che affida all’elettore il ruolo di arbitro del sistema.
Prima di esaminare le tre proposte di Renzi bisogna però segnalare i vincoli politici e costituzionali in cui ci troviamo ad operare e che si intrecciano tra loro. Quelli politici sono dati soprattutto dall’esistenza di tre schieramenti maggiori quasi equivalenti, un dato che per le elezioni che si svolgono sul piano nazionale (le politiche, le europee) potrebbe non essere transeunte almeno quanto sembra esserlo invece sul piano amministrativo, dove invece sono più solidi il centrosinistra e il centrodestra. Per avere dal voto un risultato chiaro alla sera delle elezioni, l’obiettivo fondamentale giustamente perseguito
da Renzi, avremmo pertanto bisogno di tenere conto di questo fattore e quindi di avere un sistema fortemente maggioritario che traduca i voti in seggi con una logica marcatamente bipolare. Qui intervengono però i vincoli costituzionali, peraltro ancora non del tutto chiari: è probabile che la Corte costituzionale abbia abbattuto non tanto il premio di maggioranza in sé, ma il fatto che esso, se assegnato in turno unico e senza una soglia, sia eccessivamente distorcente. Su tutti i sistemi resta poi la spada di Damocle del bicameralismo paritario, il cui superamento è stato proposto in modo netto da Renzi: senza di esso qualsiasi riforma elettorale è appesa all’alea di maggioranze diverse tra Camera e Senato, un rischio tutt’altro che teorico.
Poste queste premesse, dei tre sistemi proposti da Renzi quello che supera pienamente la prova di costituzionalità ed anche quella di efficacia (a parte la questione del bicameralismo) è il terzo: lo spareggio nazionale tra i
primi due schieramenti. Chi vince ed è portato così al 55% dei seggi, ha preso nel turno decisivo ameno il 50% dei voti. Né regge l’obiezione che una parte dei votanti del primo turno per schieramenti minori potrebbe astenersi: ad essi è comunque data la possibilità di tornare in gioco per il voto decisivo come in qualsiasi ballottaggio, ad essi la scelta se essere determinanti oppure no, ma il sistema deve solo dare tale opzione, non può imporla.
Dal punto di vista costituzionale credo che potrebbe reggere anche il secondo sistema proposto da Renzi, la legge Mattarella corretta modificando le proporzioni: 75% di maggioritario uninominale, 15% di premio eventuale nazionale, 10% di proporzionale incomprimibile. Un sistema comunque meno distorsivo di quelli inglese e francese, che assegnano tutto col maggioritario. In fondo il 15% sarebbe solo una clausola di garanzia maggioritaria. Nel contesto dato, però, in caso di grande equilibrio nelle
vittorie di collegio tra i tre schieramenti, il risultato potrebbe non essere decisivo: a differenza del caso precedente qui c’è un incentivo forte, ma non c’è una garanzia piena di risultato. Il problema si rafforza col primo sistema proposto da Renzi: lo spagnolo integrato con un premio del 15%. Se alla base del sistema non mettiamo collegi uninominali ma plurinominali con tre seggi o più, ciascuno dei tre schieramenti prenderebbe seggi nelle circoscrizioni (almeno uno a testa) e il premio non sarebbe poi quasi sicuramente sufficiente a dare un vincitore.
Fin qui l’analisi dal punto di vista della democrazia governante. A ciò si aggiunge il nodo della scelta dei singoli candidati. Non è ancora chiaro se la Corte abbia precluso del tutto l’adozione delle liste bloccate o solo quelle che vadano al di là di una certa lunghezza. Se avesse fatto la scelta più netta, il sistema spagnolo non sarebbe adottabile perché si basa su liste bloccate corte, altrimenti anche quello
potrebbe essere percorribile. Nessun dubbio di costituzionalità, invece, per gli altri due sistemi, fondati su collegi uninominali o preferenze. Pur trascinando con sé problemi seri per le candidature di coalizione, i collegi a turno unico appaiono decisamente superiori alle preferenze, le quali comportano problemi ancora maggiori in termini di spese elettorali e di divisioni interne ai partiti e ai gruppi parlamentari. Problemi che sarebbero pressoché insolubili dopo l’inserimento del nuovo reato di «traffico di influenze» da parte della legge Severino.
Giunti al termine dell’esame delle tre proposte e ferma restando la necessità della riforma del Senato, è quindi evidente che il modello migliore sarebbe quello che risulta dai collegi uninominali della seconda proposta col ballottaggio nazionale della terza. A Renzi non manca la forza per tentare di avere i voti sul meglio, a partire dal confronto serrato con gli alleati di governo.
L’Unità 03.01.14