Due americani su tre considerano il 2013 uno degli anni peggiori della loro vita. So cosa state pensando: ma il terzo americano dove ha vissuto? In Italia i fan del 2013 si contano sulle dita della mano di capitan Uncino. Tutti si sentono più poveri, anche gli evasori. Più poveri e più scoraggiati. L’indignazione, a suo modo ancora una forma di speranza, ha ceduto il posto alla rabbia. Il disprezzo per i politici si è allargato all’intero establishment: banchieri, tecnocrati, giornalisti, persino scienziati. Chiunque occupi uno strapuntino riconosciuto di potere e si agiti nel rumore dei talk show.
Ripercorrendolo a mente fredda, l’anno morente è stato prodigo di cambiamenti che un tempo si sarebbero definiti epocali. Sul Vaticano degli scandali regna un Papa già circonfuso in vita di un alone di santità. Il Caimano si è chiuso in casa a giocare con un barboncino. Il presidente del Consiglio ha meno di cinquant’anni, se non altro all’anagrafe. Il nuovo segretario del centrosinistra, comunque lo si giudichi, non offre alle telecamere uno sguardo da cane bastonato, ma sprizza energia da tutti i nei. Persino il Parlamento, origine e sfogatoio di ogni male, ha espulso branchi consistenti di dinosauri per accogliere la pattuglia di donne e di giovani più vasta della storia repubblicana.
Eppure, se si esclude papa Francesco, nessuna di queste novità è stata percepita come un vero strappo. I giochi della politica continuano a non intercettare la vita reale e per quanto il dottor Letta si sforzi di sottolineare l’efficacia delle sue cure, il malato italiano non avverte miglioramenti nel proprio stato di salute. Si respira un desiderio inebriante, a tratti pericoloso, di leadership forti e semplificatrici. Come se i problemi di una città, di una nazione, di un continente fossero risolvibili da un deus ex machina che con un tratto di penna disarma la burocrazia, abbatte le tasse, ridimensiona lo Stato senza mettere per strada gli statali, aumenta le paghe, rilancia i consumi e nei ritagli di tempo inventa nuovi lavori al posto di quelli che la tecnologia e la concorrenza internazionale hanno ridimensionato o dissolto per sempre.
L’altro cascame psicologico della crisi è il curioso impasto tra diffidenza e illusione. Cinismo e dabbenaggine spesso convivono nella stessa persona, pronta a mettere in dubbio la competenza di uno scienziato come a buttarsi tra le braccia del primo millantatore. Le soluzioni facili godono di un’ingannevole popolarità. Dalla moneta all’immigrazione, si pensa che tornare indietro sia il modo migliore per andare avanti. Il Duemila è iniziato da tredici anni, ma il dibattito pubblico, spesso anche quello privato, rimane inchiodato al Novecento: il comunismo, la lira, il bel tempo andato. Peccato che mentre lo si viveva non fosse poi così bello. Ho sentito miei coetanei decantare gli anni Settanta come un’epoca più sicura e tranquilla dell’attuale. Gli anni Settanta: quando si sparava per la strada e si rapivano i bambini. Ogni generazione rimpiange la sua infanzia, però se la nostalgia si trasforma in torcicollo emotivo produce depressione, paralisi e paragoni sterili, spesso storpiati dalla memoria.
Il 2014 pubblico sarà l’anno dei Mondiali brasiliani giocati quasi da fermi per il troppo caldo, delle elezioni europee dominate sui media dai movimenti anti-europei, della resa dei conti fra Renzi e Letta, che di Craxi e Andreotti hanno ereditato il carattere, per fortuna non l’etica, ma si spera il talento politico: magari con un po’ di concretezza in più.
Il 2014 privato potrebbe invece essere finalmente l’anno del fervore. La forza irresistibile che infonde passione e concentrazione in ciò che si fa, senza perdere più tempo a lamentarsi, invidiare, rinfacciare. Come dice quella frase da film? Andrà tutto bene, alla fine. E se non andasse bene, vorrà dire che non è ancora la fine. Buon anno di scosse e di riscosse.
La Stampa 31.12.13