Il brutto pasticcio del decreto salva-Roma ha messo a nudo – oltre agli errori politici – due problemi strutturali che condizioneranno le sorti e la durata della legislatura. Il primo problema riguarda la sclerosi del nostro procedimento legislativo, aggravata dai ripetuti fallimenti delle riforme. Il secondo consiste nello slittamento dell’opposizione di Grillo, di Berlusconi e della Lega in un’opposizione di sistema.
Enrico Letta ha confermato l’obiettivo del semestre di presidenza italiana dell’Ue e si prepara a negoziare il «contratto» della nuova maggioranza: ma, dopo quanto è accaduto, serve un serio approfondimento prima di predisporre il calendario del 2014.
Le nostre istituzioni non funzionano. Ci sono intoppi ad ogni snodo. Da tempo si invoca una revisione che restituisca all’ordinamento efficienza, trasparenza, capacità di decisione democratica. Ma siamo arrivati al punto che parlare di riforme suscita persino rabbia. Per- ché non si conclude mai nulla. E perché intanto la crisi colpisce duramente il lavoro, le famiglie, i giovani, le imprese. Tuttavia, senza un governo e un Parlamento rilegittimati da riforme sensate, senza un bilanciamento dei poteri, senza una legislazione più essenziale e meno dispendiosa, sarà difficile per il sistema-Italia invertire la rotta che ci ha portato al declino.
Ci vuole anzitutto una legge elettorale che restituisca rappresentatività al Parlamento e favorisca la formazione di maggioranze coerenti. Dopo la sentenza della Corte costituzionale, la riforma è assolutamente necessaria. Ma, per assicurare una democrazia dell’alternanza e per ricostruire il circuito cittadini-partiti-governo-istituzioni, la legge elettorale da sola non basta. Tanto meno è sufficiente in un sistema dove vige il bicameralismo paritario. I ruoli delle due Camere vanno distinti, il rapporto fiduciario con il governo va affidato alla sola Camera (introducendo anche la sfiducia costruttiva), il Senato deve svolgere quel ruolo di composizione tra Stato e Autonomie territoriali che solo un sistema malato come il nostro può delegare alla Consulta o alle trattative convulse della Conferenza Stato-Regioni.
In queste riforme devono inserirsi le modifiche ai regolamenti parlamentari. Il procedimento legislativo è oggi ripetitivo e disfunzionale. Ma intervenire nei suoi delicati meccanismi è possibile solo con idee chiare e mano ferma: il fallimento è garantito se si procede per mediazioni successive. Abbiamo bisogno di semplificare le leggi, di renderle più trasparenti nella loro formazione e nel loro uso. Non solo è necessario che la legislazione nazionale venga affidata come compito prevalente al- la Camera, ma anche che l’eventuale potere di richiamo del Sena- to sia limitato e ben definito. Va cambiato anche il modo di scrivere le leggi: nel tempo si è affermata una prassi che rende quasi illeggibili le norme, concepite come correzioni di articoli e di commi di leggi precedenti. Dare un diverso ordine alla legislazione, e assecondare un piano di semplificazione normativa e di testi unici, è invece indispensabile per la stessa ripresa economica del Paese.
Nei regolamenti parlamentari andrebbero incluse anche misure contro il trasformismo. Ad esempio, si potrebbe prevedere il divieto di transito da un gruppo politico a un altro durante la legislatura. Se un deputato rompe con il proprio gruppo, va posto di fronte a due sole alternative: iscriversi al gruppo misto o dimettersi.
A questo punto, però, non si può sfuggire alla domanda: queste riforme sono possibili nella legislatura in corso? Sono possibili con Forza Italia, Cinque stelle e Lega schierati sulla linea del «tanto peggio, tanto meglio»? Sabato scorso i senatori grillini hanno impedito persino l’approvazione del verbale della seduta: se le opposizioni attuassero un ostruzionismo sistematico, chiedendo la verifica del numero legale a ogni votazione, precipiteremmo di nuovo nello scenario del secondo governo Prodi. Sette voti di maggioranza sono poca cosa se viene me- no ogni lealtà istituzionale. Per andare avanti bisognerebbe, appunto, cambiare i regolamenti, cancellando i maxi-emendamenti governativi e fissando tempi certi per il voto sui disegni di legge giudicati essenziali all’indirizzo politico dell’esecutivo. Ma ne esistono le condizioni? La nuova maggioranza è pronta alla battaglia, se fosse necessaria? La strumentalità con cui Forza Italia sta incoraggiando persino la richiesta di impeachment da parte di Grillo è un pessimo indicatore: non solo siamo di fronte ad accuse contro Giorgio Napolitano del tutto prive di sostanza giuridica e politica, ma in tutta evidenza l’obiettivo congiunto di Grillo e Berlusconi è la caduta del governo e il ricorso alle elezioni in condizioni di insicurezza. M5S e Forza Italia voglio- no che il sistema resti ingovernabile anche dopo il voto.
La legge elettorale, ovviamente, va fatta ad ogni costo. Anche a costo di un duro scontro parlamentare. Ma il punto – per Letta e per il Pd anzitutto – è il seguente: se non fosse possibile fare qualcosa di più della legge elettorale, avrebbe senso continuare la legislatura oltre la prossima primavera? Sia chiaro, all’Italia le riforme servono come l’ossigeno e senza riforme rischiamo che anche le prossime elezioni producano in- certezza e instabilità. Ma, quando Letta chiamerà al tavolo i leader della nuova maggioranza per firmare il contratto di governo per il 2014, deve tenere conto che il trio Berlusconi-Grillo-Salvini punta a far saltare tutto e che l’ennesimo fallimento sulle riforme rischia di travolgere ogni ipotesi di svolta sul piano economico e sociale. Letta deve tentare. Neppure a lui, però, può bastare la sola legge elettorale per arrivare a fine 2014. Oltretutto in primavera ci saranno comunque le elezioni europee. E Berlusconi, Grillo e la Le- ga giocheranno in chiave anti-euro la loro opposizione di sistema, usando argomenti non tanto di- versi da quelli di Le Pen. La partita è rischiosa come mai nel recente passato.
L’Unità 30.12.13