Siamo i primi al mondo nel tessile, nell’abbigliamento, nei prodotti in cuoio e nell’occhialeria. Siamo i secondi al mondo nell’automazione-meccanica (macchine industriali, per gli imballaggi e di precisione), nei manufatti di base (ceramiche, metalli, prodotti in metallo e per l’edilizia) e nei manufatti diversi (articoli di plastica, design-arredo, mobile, attrezzature per la casa).
Siamo i sesti al mondo negli alimentari trasformati e custodiamo una serie di leadership sui prodotti di qualità della cosiddetta Altagamma. L’auto italiana ha vinto la sfida dell’internazionalizzazione, conserva primati nella fascia sportiva, soffre duramente sul mercato interno. Non siamo più solo nella siderurgia di base che vive da tempo giorni tormentati, primeggiamo negli acciai speciali e ad alto contenuto hi-tech. Non abbiamo più l’informatica ma competiamo nel mondo con i codici a barre bolognesi e una galassia di piccole stelle della provincia italiana di primaria grandezza tecnologica. Non abbiamo più la chimica di base ma tanti primati nella chimica di specialità e nella farmaceutica di qualità. Diciamo la nostra come costruttori di navi da crociera e nella tecnologia per l’aerospazio e la difesa.
Tutto questo, per capirci, è il frutto del sudore e della straordinaria capacità di investire in innovazione di uno specialissimo capitalismo produttivo italiano che non va confuso con i tanti che hanno fatto la loro fortuna saccheggiando lo Stato padrone e addentando la spesa pubblica, in una spirale perversa di vizi incrociati, quasi sempre creando ricchezza privata e distruggendo valore e cultura industriali. Il capitalismo italiano sopravvissuto è il cuore profondo della nostra economia reale che coincide con l’unicum della manifattura e vale 110 miliardi di surplus e circa 400 di esportazioni. Siamo secondi dopo la Germania, come documentano Marco Fortis e Valerio Castronovo, nelle classifiche settoriali Wto di competitività nel commercio mondiale. Così come nei servizi e nelle grandi reti, c’è un ritardo colpevole nelle telecomunicazioni e nel trasporto aereo, ma la “rivoluzione silenziosa” di Ferrovie e Poste e la forza dei player energetici in Italia e all’estero, delineano uno stato di famiglia vitale e combattivo.
Gli indici destagionalizzati dell’Eurostat ci dicono che il fatturato dell’industria manifatturiera italiana a settembre 2013 è caduto del 16,9% rispetto al gennaio del 2008. Nello stesso periodo il calo della Germania è stato del 2,8%. Sapete perché si registra questa differenza? Semplice: il fatturato domestico italiano (effetto crisi domanda interna) è sceso del 23%, quello tedesco del 6,3%. Per questo, contro i “declinisti interessati” vecchi e nuovi, ci permettiamo di insistere che la priorità per l’Italia se vuole (davvero) rialzare la testa sono il lavoro, l’industria, la domanda interna. Mi chiedo: vogliamo che chiuda anche il capitalismo delle multinazionali tascabili e della loro rete di micro-imprese che pagano un total tax rate abnorme, non hanno mai smesso di fare innovazione, subiscono ogni giorno il ricatto della burocrazia, remunerano il denaro (se lo trovano) più dei concorrenti internazionali e esportano, senza aiuti, per un valore pari alla metà della nostra spesa pubblica? Non credo che nessuno possa nemmeno pensarlo e, per questo, occorre spezzare il circolo perverso della «fatica sociale» di cui ha parlato ieri il premier, Enrico Letta, indicando e attuando, alla voce fatti, un percorso che tolga allo spreco pubblico nazionale e territoriale e sia capace di dare alle forze sane dell’economia di mercato e ai lavoratori che possono così recuperare reddito e potere d’acquisto.
Per questo, ripeto, insistiamo sulla necessità di dare corso effettivo all’impegno che tutto ciò che verrà dalla spending review e dalla lotta all’evasione vada in modo automatico a lavoratori e datori di lavoro.
Le luci in fondo al tunnel si intravedono, ma si potranno ingrandire sulla base di due fattori: il traino del resto del mondo, qui l’America ci aiuta e l’Europa molto meno, e la nostra capacità di farci trainare. Dipende da noi. Nessun settore dell’economia soffre la crisi quanto la manifattura: la pelle vecchia è stata scartata e la muta ha significato dolorosi ridimensionamenti. La pelle nuova riguarda solo una parte delle imprese ed è questo nucleo duro di eccellenze mondiali che non deve essere lasciato solo.
Proprio da qui può (deve) ripartire quella rinascita dell’economia che va usata e “spesa” come leva per ridare fiducia alla società. La chiave oggi è diventata la domanda interna stremata, che appanna la residua voglia di spendere, e va rianimata. Presidente Letta, ora più che mai l’Italia ha bisogno di una politica che sappia offrire agli italiani un percorso di risanamento e di crescita, un impegno effettivo a ridurre la spesa migliorandone la qualità (fare meglio con meno) e destinando i risparmi al taglio del cuneo fiscale, puntando a ridurre il peso del deficit attraverso l’espansione del denominatore (pil) non attraverso l’austerità fine a se stessa. Sappiamo che non è facile, ma sappiamo anche che non si può fare diversamente.
IL Sole 24 Ore 24.12.13