Ma è possibile abolirli, questi Cie? Penso seriamente, ragionevolmente e persino pacatamente di sì. Centri di identificazione e di espulsione possono essere aboliti. Svuotandoli delle loro motivazioni costitutive, mostrandone l’inadeguatezza e l’inefficienza, rivelandone la miseria. Ovvero argomentandone la totale insensatezza. Quelle bocche cucite dei trattenuti di Ponte Galeria, a Roma, ci costringono a parlarne. Quel silenzio auto inflitto con gli aghi ricavati in maniera rudimentale dagli strumenti della vita quotidiana ci forza a dire ciò che finora sembrava indicibile. I Cie non rispondono a nessuna ragione né di sicurezza né di umanità; peggio: deridono la sicurezza e oltraggiano l’umanità. Sono «non luoghi» sprofondati in un non tempo: un tempo totalmente vuoto, privo di qualunque attività che non sia quella meramente fisiologica. Ma, accertato tutto ciò, torna la domanda: possono essere aboliti i Cie?
In questi centri, allo stato di migrante irregolare, magari disconosciuto dal proprio paese d’origine, o in fuga da esso, si aggiunge talvolta il marchio di una condanna penale, seppure per fatti di minimo disvalore sociale. Ecco, questi sono gli «ultimi», cui si offre un rifugio provvisorio, senza possibilità di uscirne, fino a quando qualcuno non decida che fine fargli fare, se rimandarli in un qualche luogo d’origine o magari, beffardamente, nel paese d’origine della famiglia. Come
quel 21enne nato e vissuto sempre ad Aversa, incontrato nel Cie di Roma, che sta per essere espulso in Serbia perché da lì verrebbero i suoi genitori, e che mi dice: «Ma io il viaggio più lungo l’ho fatto per andare a Milano», e non conosce alcuno che abiti in Serbia, non ne parla la lingua, non ne ha mai visto il paesaggio. Inevitabilmente quindi i Cie sono luoghi inospitali, destinati ad accogliere persone che non ci vogliono stare (e che spesso non capiscono perché vi siano costretti) in nome e per conto di una legislazione che non ha alcuna intenzione di «ospitarli», ma vorrebbe solo rimandarli a casa nel più breve tempo possibile.
Un’ospitalità senza desiderio (senza il desiderio di ospitare degli uni e senza il desiderio di essere ospitati degli altri) si risolve così necessariamente in un limbo in cui uomini e donne sono costretti a sopravvivere al minor costo possibile per il tempo necessario al disbrigo di pratiche burocratiche. Queste condizioni che attengono al loro stesso mandato istituzionale fanno dei Cie luoghi in qualche modo irriformabili, di cui è necessario perseguire il superamento attraverso il loro svuotamento di funzioni e di persone. Per questo è importante il primo passo compiuto dal Governo con il nuovo decreto-legge voluto dal Ministro Cancellieri. In esso è prevista l’identificazione dei detenuti stranieri passibili di espulsione sin dal loro ingresso in carcere. In questo modo finirebbe l’inutile trasferimento dal carcere ai Cie di tantissimi stranieri che hanno appena finito di scontare la propria pena: se devono e possono essere espulsi ciò avverrebbe direttamente dal carcere; se vi sono ragioni per cui non debbano o non possano essere espulsi, tornerebbero legittimamente in libertà, avendo saldato i propri debiti con la giustizia italiana.
Alcune stime valutano in un 30-40% gli ex detenuti trattenuti nei Cie. L’ultima indagine di Medici per i diritti umani (maggio 2013) ci dice, invece, che quasi il 57% dei 924 stranieri trattenuti nei Cie proveniva dalle carceri. Basterebbe una buona applicazione della recente norma del governo Letta per dimezzare lo scandalo che è sotto i nostri occhi. Resterebbe, certo, l’altra metà degli «ospiti» dei Cie da liberare, ma anche qui si può fare qualcosa, fin quasi allo svuotamento dei Centri. È un pregiudizio ingiustificato quello che raffigura qualsiasi irregolare come un fuggitivo di fronte alle autorità italiane. Un pregiudizio alimentato dal cattivo uso della lingua italiana, per cui ogni «irregolare» è «clandestino» (parola oscena e violenta che impazza a destra come a sinistra) e tale intende rimanere. Al contrario, come sappiamo, molti degli «ospiti» dei Cie hanno o hanno avuto relazioni significative con le loro comunità nazionali presenti nel nostro paese, con le realtà territoriali (fatte di italiani e stranieri) in cui hanno vissuto e lavorato, con le stesse istituzioni, quando vi hanno avuto a che fare (per un permesso di soggiorno scaduto, per i contributi versati, per le cure mediche ricevute). Non è un caso se solo il 40% scarso dei trattenuti nei Cie nel 2012 sono stati effettivamente rimpatriati, e probabilmente molti di questi provenivano dalla cella.
Insomma, se ci si liberasse dal pregiudizio secondo cui ogni straniero irregolare è un clandestino in fuga e che minaccia la nostra incolumità, si potrebbero adottare altri mezzi per l’accertamento della loro permanenza in Italia e per la loro eventuale espulsione.
Non c’è nulla da inventare: basterebbe un obbligo di firma o un obbligo di dimora, vincoli e limiti ai movimenti (peraltro si tratta di misure già previste ma applicate solo in casi eccezionali) per verificare che l’irregolare soggetto a identificazione, o che ha contestato un provvedimento di espulsione, sia reperibile dalle forze di polizia. E così i Cie sarebbero ridotti a pochi locali, necessari a ospitare per qualche notte chi sia in attesa del rimpatrio ormai esecutivo. È l’unico modo affinché quelle bocche cucite riprendano a nutrirsi e le nostre voci afone possano riacquistare un po’ di credibilità.
L’Unità 24.12.13