Big Ben ha detto stop. Dubito che Ben Bernanke abbia mai visto Portobello, ma la frase ormai storica di Enzo Tortora descrive perfettamente il momento cruciale dell’economia americana. Da mercoledì pomeriggio, gli Usa devono ritornare a camminare con le proprie gambe perché Big Ben ha cominciato a togliere le stampelle della Federal Reserve. Ridurre lo stimolo che la Fed pompa nell’ economia americana ogni mese da 85 miliardi a 75 miliardi non sembra granché ma è in realtà una decisione storica.
Il messaggio lanciato da Bernanke un mese prima di lasciare la banca centrale americana è chiaro: la ripresa è solida, i consumatori stanno ritornando in negozi e agenzie immobiliari, le aziende sono in buona salute, i mercati in grande spolvero.
A cinque anni dalla crisi finanziaria più devastante del dopoguerra, la Fed incomincia a togliersi di mezzo, lasciando l’economia più capitalista del mondo e i liberi mercati a fare il loro mestiere.
A dire la verità, Bernanke e i suoi hanno aggiunto una dose di zucchero alla pillola un po’ amara del taglio di stimolo: la promessa di tenere tassi d’interesse bassissimi a lungo – un impegno che i mercati adorano.
Come ha detto Michael Fredericks, che gestice 5,5 miliardi di dollari per il gigante dei fondi di investimento BlackRock, ai miei colleghi del «Wall Street Journal»: «Negli ultimi anni, abbiamo vissuto nello scantinato dei nostri genitori, ora i genitori ci hanno detto di andare a vivere da soli».
Funzionerà? È una domanda che vale miliardi di dollari e il futuro dell’ economia del pianeta.
La risposta immediata degli investitori è stata entusiasta. Ero al telefono con un operatore di Borsa alle 2 di mercoledì, quando la Fed ha annunciato la sua decisione e ho trascritto (e tradotto) parola per parola la sua reazione: «Oh… oh… merd… tagliano… tagliano di 10… tassi bassi… ottimo… compra, compra, compra, devo andare». Ha messo giù il telefono e si è messo a comprare azioni a destra e a manca. Così hanno fatto quasi tutti i suoi colleghi e i mercati azionari sono andati quasi in tilt, infrangendo un altro record.
Persino i mercati asiatici, che avevano ricevuto buona parte del denaro a poco prezzo lanciato dalla Fed nelle tasche degli investitori, non sono crollati, fiduciosi che l’economia Usa trascinerà il resto del mondo.
Ed è qui che la situazione si complica e l’ottimismo di investitori e commentatori potrebbe essere eccessivo. I problemi sono due, entrambi fondamentali, ma profondamente diversi. Il primo è se l’economia americana riesce a sorreggersi con la Fed in ritirata. Il secondo è se la stessa economia riesce a sorreggere il resto del mondo.
La risposta al primo quesito è più semplice. Con la disoccupazione in calo, i tassi bassi e l’energia a basso prezzo, gli Usa dovrebbero mantenere una velocità di crociera accettabile.
Anche perché non bisogna esagerare il ripiegamento della Fed. La parola inglese per la manovra di Bernanke è «taper», un verbo preso in prestito dalla sartoria dove vuole dire «restringersi» come i pantaloni verso la fine della gamba. L’idea è quella di un ritiro graduale e preciso, non drammatico e repentino.
E infatti la lunga mano della Fed è ancora presente nel mercato immobiliare. La banca centrale finanzia quasi il 90% di nuovi mutui, tenendo i tassi artificialmente bassi e permettendo a milioni di americani di comprare (o ricomprare) case. E la decisione di tenere i tassi bassi aiuterà i consumi e gli investimenti, dalle spese sulle carte di credito all’acquisto di nuove fabbriche da parte di società. Big Ben ha detto «pausa» più che stop.
In questo senso, i dati sul Pil usciti venerdì – crescita del 4,1% nel terzo trimestre dell’anno – sono molto incoraggianti. L’America è fuori pericolo e quasi alla fine della convalescenza del dopo-crisi, ma non è in condizione di fare la locomotiva per il resto del mondo.
C’è un dato agghiacciante che gli ottimisti dovrebbero tenere a mente. Dalla fine della recessione nel 2009, l’economia americana è cresciuta di solo 2,3% l’anno, quasi la metà della media delle altre espansioni nel dopoguerra. Immaginate quanti posti di lavoro, prodotti e servizi sono stati persi a causa della ripresa anemica degli ultimi quattro anni.
Se gli Usa fossero cresciuti ad un ritmo «normale», oggi l’economia avrebbe aggiunto l’intero prodotto interno lordo di un Paese come il Messico.
A questi livelli, l’economia americana ce la fa a mala pena a trainare se stessa. Con la Cina in fase di transizione politica e l’Europa sempre in crisi, non ci sono altri candidati seri a guidare il resto del mondo. Il che è un problema anche per l’economia americana, soprattutto per l’industria manifatturiera che avrà difficoltà ad esportare i suoi prodotti.
«Nessun uomo è un’isola» disse il poeta inglese del ‘600 John Donne, e lo stesso vale per le economie del 2013. Nell’era della globalizzazione, la crescita economica deve passare da continente a continente per rimanere forte e sostenibile.
In questo momento, l’America è un’isola. Un’isola felice, ma pur sempre un’isola. L’aiuto di cui gli Usa hanno veramente bisogno non risiede nell’ufficio di Big Ben, ma dietro la muraglia cinese, nei piani alti dei grattacieli di Francoforte e nei corridoi del potere di Bruxelles.
Come dicevano i tre moschettieri: «Tutti per uno, uno per tutti».
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal».
La Stampa 22.12.13