Che cosa significa per un bambino o ragazzo essere in condizione di povertà assoluta? Significa non poter avere una alimentazione adeguata, non fare prevenzione sanitaria (con la crisi sono crollate le visite dal dentista, che in Italia non fanno parte del servizio sanitario nazionale), vivere in spazi domestici troppo affollati e in spazi esterni spesso degradati, non potersi scaldare a sufficienza, non avere libri e giocattoli, talvolta non avere l’abbigliamento adatto alla propria corporatura. Significa avere a disposizione servizi per l’infanzia e scuole in misura minore, e di più bassa qualità ambientale, della già non eccelsa media nazionale. Significa sperimentare già da piccoli, tramite l’esperienza dei genitori, che il lavoro spesso non c’è e quando c’è non dà abbastanza da vivere decentemente.
Significa anche capire molto presto di non contare nulla per chi ha potere di decidere. Sono circa un milione i bambini e ragazzi che vivono in condizione di povertà assoluta nel nostro paese di cui Save the Children nel suo ultimo “Atlante” ha tracciato, in collaborazione con i ricercatori dell’Istat, una fotografia (per noi tutti) impietosa quanto drammatica. Sono il doppio di quanti (già troppi) erano in questa condizione nel 2007. La metà vive nel Mezzogiorno, dove più di un minore su 10 vive in condizioni di povertà assoluta (in Sicilia quasi uno su cinque). Ma l’aumento è stato relativamente maggiore nelle regioni centro-settentrionali. I minori, insieme e più dei giovani, sono le grandi vittime della crisi, che li colpisce fin dentro le condizioni di crescita, di salute, di capacità e possibilità di progettare un futuro, precostituendo un percorso che porterà molti di loro ad ingrossare le fila dei Neet — giovani tra i 18 e i 24 anni che né studiano né lavorano — per i quali l’Italia ha un non invidiabile primato. Eppure la povertà dei minori non riesce ad entrare in nessuna agenda politica, in nessuna scala di priorità. Anzi, molte decisioni di politica economica hanno colpito e colpiscono particolarmente loro, ulteriormente riducendo le risorse disponibili per attività e servizi loro destinati. La drastica riduzione del fondo sociale, unitamente ai vicoli del patto di stabilità, ha comportato una riduzione dei servizi per la prima infanzia, così importanti per contrastare le disuguaglianze di partenza. La riduzione dei fondi per la scuola ha portato alla forte riduzione del tempo pieno, soprattutto nelle regioni (del Sud) dove si era meno consolidato, ma dove sarebbe più necessario per contrastare situazioni di disagio e carenza di risorse famigliari, ed anche dei servizi integrativi. Certo, accanto ai vincoli di bilancio (e al modo in cui sono definiti), c’è stata e c’è una forte carenza di programmazione e di utilizzo dei fondi, specie europei. Ma, a mio parere, ha contato e conta l’intreccio tra marginalità e frammentazione delle politiche di contrasto alla povertà da un lato, marginalità delle politiche rivolte all’infanzia e all’adolescenza dall’altro. Esse sono sempre occasionali, temporanee, nascono e muoiono con il politico e il fondo di turno, senza diventare mai misure consolidate, per quanto rivedibili, con finanziamenti certi. Ciò produce dispersione di energie e risorse ed anche sfiducia ed estraniazione, non solo tra i minori e le loro famiglie, ma tra gli operatori sociali e le comunità.
Un esempio, solo apparentemente marginale, è quanto sta succedendo a Napoli proprio in queste settimane. Da anni esiste in quella città un’attività di educativa territoriale, circa 25 laboratori che tutti i pomeriggi, dal lunedì al venerdì, accolgono ragazzi e adolescenti nei quartieri più a rischio della città, fornendo loro sostegno scolastico e arricchimento curriculare e sottraendoli alla strada e al reclutamento da parte della camorra. In quindici anni di esistenza sono stati accolti centinaia di ragazzi, riducendo il rischio di dispersione scolastica purtroppo altissimo in quella città. In tutto questo tempo non si è mai trovato il modo di finanziare queste attività in modo regolare e continuativo, e tantomeno di decidere se e in che modo sia necessario avere una politica di contrasto all’esclusione scolastica e alla marginalità sociale dei ragazzi più svantaggiati. Gli operatori, ma anche i ragazzi e le famiglie, sono stati sistematicamente lasciati in uno stato di perenne incertezza. Anche in questi giorni, il ritardo nel fare la delibera necessaria (o nel trovare una soluzione alternativa, se ritenuta migliore) provocherà la chiusura dei laboratori, lasciando circa 2mila famiglie disagiate senza una soluzione sicura per i figli dopo le vacanze di Natale. Ecco pronto il regalo di Natale ai ragazzi più poveri di Napoli (ma fenomeni simili stanno avvenendo anche in altre città).
La Repubblica 12.12.13