L’Italia che sprofonda. Precipita, in caduta libera, lungo la scala sociale e si ritrova alle soglie della povertà. L’Italia che aggiunge, ai milioni di disoccupati e cassintegrati, altri milioni che non riescono ugualmente a pagare le bollette.
Che hanno prosciugato il conto in banca e adesso si sentono chiedere di rientrare dallo scoperto, che tirano giù per l’ultima volta la saracinesca del negozio o si rassegnano a far fallire l’impresa. L’Italia che è povera e disperata da sempre, al Sud, e l’Italia che, invece, si ritrova, improvvisamente e senza sapere come, impoverita e impaurita, al Nord Est, come al Nord Ovest. L’Italia che, piegata da cinque anni di crisi e di austerità, si ritrova in piazza — o vorrebbe andarci — spinta solo dalla rabbia e non dalla speranza di ottenere risposte a domande che non riesce a formulare. Forse anche per questo, in piazza, più che i poveri, ci sono quelli che si guardano alle spalle, con i nervi a fior di pelle, perché sentono i poveri, di colpo, sempre più vicini.
La mappa del disagio sociale dice, infatti, che l’Italia è un Paese con sempre più poveri: ormai, quasi una famiglia su cinque. Oltre un milione 700 mila famiglie non raggiunge «uno standard di vita minimamente accettabile», secondo la definizione dell’Istat: lo standard varia a seconda del numero di componenti e della città, ma, in quattrini, oscilla fra i 600 e i 1000 euro al mese. Questi poverissimi, solo un anno fa, erano un quarto di meno. Tuttavia, in un Paese del mondo avanzato, che fa parte del G8, si è poveri anche se si riesce a mangiare, ma non si tiene il passo con il resto della società. I calcoli statistici dicono che, per non essere povera in un Paese ricco, una famiglia di due persone deve disporre almeno di mille euro al mese. Giusto lo stipendio di un precario fortunato,
con moglie a carico, ma senza figli. Anche qui, in fondo alla scala sociale, le fila si ingrossano. Nel 2009, questa povertà relativa coinvolgeva quasi l’11 per cento delle famiglie italiane, oggi sono più di 3 milioni, cioè vicini al 13 per cento. Altrettanto male, però, sta chi rischia, ogni mese, di slittare sotto quella soglia, chi guadagna 1100, 1200 euro. Sono i “quasi poveri”, un altro 6 per cento di famiglie, perennemente in bilico.
Chi sono questi poveri? In Italia, ci sono ormai più di 3 milioni di disoccupati, di cui solo 2 milioni e mezzo ricevono il sussidio. Poi ci sono più di un milione e mezzo di cassintegrati. Soprattutto, ci sono oltre 7 milioni di pensionati che, ogni mese, vedono arrivare dall’Inps meno di quei mille euro della soglia di povertà. Di loro, più di 2 milioni non arriva neanche a 500 euro. Praticamente, quasi un pensionato su due vivrebbe ai limiti della sussistenza, se il suo assegno fosse l’unico reddito di casa. Così, spesso, non è. Ma il discorso vale anche a rovescio. Quei mille euro di pensione sono, spesso, l’unica fonte di reddito stabile e sicura della famiglia, intorno a cui ruotano altri introiti volatili, precari, anche occasionali, portati a casa da membri più giovani, ancora a caccia di un posto fisso. Anzi, di un posto qualsiasi. Solo un terzo degli italiani under 30, in effetti, lavora o cerca lavoro. Il grosso, d’altra parte, studia. Ma uno su dieci cerca lavoro e non lo trova.
E’ questa situazione di incertezza, casualità, fragilità, fra alti e bassi imprevedibili che gli sprofondati, caduti dalle certezze e dalle sicurezze delle classi medie, sentono sempre più vicina o stanno imparando a conoscere in questi mesi. Le statistiche cominciano solo ora a dare conto della mazzata della crisi. Fra il 2008 e il 2011 il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto del 5 per cento: quando prima si faceva la spesa al supermercato per 100 euro, poi ci si è dovuti accontentare di una spesa di 95 euro. Ma il vero colpo è arrivato fra il 2011 e il 2012, con l’avvitarsi della crisi e dello spread: il potere d’acquisto è sceso in un solo anno di un altro 5 per cento. La spesa di 100 euro del 2008, ora è più magra di 10 euro. Le bollette della luce, del gas, le rate del condominio, la tassa della spazzatura sono diventate un incubo: il Censis dice che un quarto delle famiglie italiane ha difficoltà a pagarle. Non ci sono più neanche le riserve a cui attingere. Conti in banca e risparmi vengono progressivamente
prosciugati e mai rimpolpati. Negli anni ‘90, il Paese poteva permettersi di mettere da parte, in media, quasi un quarto del suo reddito. Erano gli anni in cui le Giornate del risparmio erano grandi feste trionfalistiche. Oggi, su 100 euro di reddito, in media (ricchi compresi, quindi) nel salvadanaio per i tempi bui ne vanno meno di dieci.
Getta la spugna e sprofonda soprattutto quella parte del ceto medio che, prima della crisi, più si era fatta largo nelle gerarchie sociali ed economiche: imprenditori, commercianti, lavoratori autonomi. Fra gennaio e settembre di quest’anno quasi 10 mila società hanno dichiarato fallimento, il grosso nel corso dell’estate. Molte erano solo scatole vuote, aziende che non avevano mai presentato bilanci negli ultimi tre anni: semplici progetti o terminali di operazioni più complicate. Ma chiudono i battenti, senza l’onta del fallimento, migliaia di aziende vere. In Italia, secondo le elaborazioni della Fondazione Nord Est, in meno di due anni, dalla fine del 2011 allo scorso settembre, hanno cessato l’attività quasi 80 mila imprese, dai campi alle fabbriche, ai negozi. Nell’ultimo anno, sono sparite 12 mila fabbriche, oltre 20 mila imprese edili, 5 mila aziende di trasporto. A cui bisogna aggiungere 17 mila fra bar e ristoranti, 11 mila negozi di moda e abbigliamento. Un gelo che ha investito anche le zone più dinamiche del paese. Il Nord Est ha perso oltre 3 mila aziende manifatturiere, 5 mila imprese edili, fra la fine del 2011 ed oggi, ad un ritmo di chiusure superiore a quello nazionale.
Troppe tasse, troppe bollette, ma, soprattutto, a spegnere la luce sono state le banche, preoccupate di rientrare dei loro prestiti. Il termometro della caduta di una parte di società che, fino a ieri, veniva accolta in banca con sorrisi e pacche sulle spalle lo danno le statistiche sulle sofferenze, ovvero i crediti incagliati, che le banche disperano di recuperare. All’ultimo conto, i prestiti, probabilmente, svaniti, sfiorano i 150 miliardi di euro: rispetto all’anno scorso, c’è un aumento del 22,9 per cento. Ma, se si prende a confronto il 2010, quando la crisi era ancora strisciante, i soldi che gli sprofondati, ormai, non sembrano in grado di restituire, sono raddoppiati.
La Repubblica 12.12.13