attualità, scuola | formazione

“Ma la scuola italiana è davvero migliorata?”, di Benedetto Vertecchi

Non sono convinto che i dati della rilevazione Pisa 2012, appena diffusi dall’Ocse, siano da considerarsi un segnale di miglioramento circa la qualità dei risultati che si conseguono nel nostro sistema educativo. E ciò per varie ragioni, sia di carattere generale, in quanto riferibili ai traguardi d’insieme che la scuola persegue (o, almeno dichiara di voler perseguire)nei Paesi democratici, sia per una considerazione non semplicemente da bar dello sport delle posizioni occupate nelle graduatorie internazionali dai singoli Paesi.
Chi non si sia accontentato delle notizie d’agenzia, e abbia cercato di capire qualcosa di più consultando il rapporto ufficiale pubblicato dall’Ocse (Pisa 2012 Results: What Students Know and Can Do. Il testo è disponibile nel sito www.oecd.org), si è trovato, in apertura di libro, di fronte ad alcune affermazioni che non possono essere date per scontate. Nella premessa del segretario generale dell’Organizzazione, Angel Gurría, si legge, infatti, che i risultati educativi non devono essere valutati con riferimento a criteri definiti a livello nazionale, ma in una logica di economia globale, per la quale ciò che conta è ottenere prestazioni più elevate nel tempo più breve.

I dati Pisa dovrebbero,quindi,essere tenuti in considerazione dai governi e dagli educatori per definire politiche capaci di conseguire il traguardo indicato. In altre parole, si dà per scontato che l’educazione sia da considerarsi subalterna all’economia e che l’analisi dei fenomeni educativi debba essere effettuata avendo come riferimento le ricadute che dall’attività delle scuole si possono avere nei tempi brevi. Può anche darsi che argomentando da un punto di vista strettamente economico le cose stiano nel modo indicato nel rapporto dell’Ocse, ma non si può dare per scontato che tale punto di vista sia da considerare necessario per definire i traguardi dell’educazione. Se i traguardi perseguiti comprendono aspetti che riguardano lo sviluppo di un pensiero autonomo, di capacità interpretative, di conoscenze non necessariamente collegabili ai processi produttivi (tali sono le lettere e le arti, ma anche le interazioni con la natura non rivolte a trarne un subitaneo quanto precario vantaggio), la pedagogia implicita nelle affermazioni del segretario dell’Ocse non può che suscitare allarme.

Siamo di fronte a un’idea di educazione volta a conseguire obiettivi di utilità in tempi brevi, avendo in mente un’idea di competenza che non comprende, e anzi esclude perché in contrasto con l’economia globalizzata, la cultura come espressione di ciò che è specifico nelle condizioni di esistenza degli individui e dei popoli. Si direbbe che la competenza cui si aspira coincida con ciò che al momento è richiesto dai sistemi produttivi. Non ci si chiede quanto a lungo tale competenza conserverà il suo valore, e di conseguenza sosterrà il corso della vita di chi l’ha conseguita.

Quelli sommariamente richiamati sono aspetti sui quali è necessaria una riflessione a livello nazionale. E forse è anche il caso, una volta tanto, di dire che l’Europa ce lo chiede: certo non ci sollecita direttamente, ma proprio dalla comparazione tra le condizioni di funzionamento del nostro sistema educativo e quello di altri Paesi, che hanno ottenuto risultati nettamente più positivi,emerge lo scarto tra le opportunità d’istruzione e la qualità delle esperienze di cui fruiscono i nostri ragazzi e quelle correnti altrove.

Basti considerare alcuni dati: gli orari di funzionamento delle nostre scuole sono schiacciati sul tempo delle lezioni, senza possibilità di applicare ciò che è stato appreso, di compiere le esperienze e di sviluppare le interazioni che renderebbero qualitativamente apprezzabile l’apprendimento; c’è un’estrema disgregazione nella distribuzione territoriale dei risultati, con isole positive, o anche molto positive, ed estese aree di deprivazione; è inaccettabile il livello della varianza fra le scuole(ossia le differenze tra i risultati delle singole scuole), mentre sarebbe accettabile, in una certa misura, solo una varianza entro le scuole; si osservano differenze di genere nei risultati che sono rivelatrici non certo di capacità difformi,quanto della permanenza di stereotipi sessuali.

Un dubbio aggiuntivo è quanta parte del Punteggio ottenuto dai nostri ragazzi sia effetto d’interventi tesi ad addestrare gli allievi a rispondere a quesiti del tipo che sarebbe stato utilizzato per le rilevazioni Pisa. Indicazioni in tal senso sono state frequenti in passato, quando è sembrato che fosse una via rapida per risalire la china. Ma è veramente così? I punteggi ottenuti per addestramento riflettono competenze che durano quanto lo stimolo che li ha prodotti. I dati della rilevazione Pisa sarebbero importanti se costituissero il punto di partenza per una riflessione sui problemi della nostra scuola che investisse sia le scelte a carattere generale,sia le soluzioni organizzative e didattiche. Ma ciò dovrebbe essere fatto seguendo una linea interpretativa opposta a quella indicata dal segretario dell’Ocse. Si dovrebbe rivolgere la massima attenzione proprio a quanto c’è di specifico nella nostra cultura, a come siamo in grado di immaginare lo sviluppo del nostro Paese, ai rapporti col resto d’Europa, ai problemi di funzionamento del nostro sistema scolastico.

L’Unità 09.12.13