Alcuni giorni fa su un quotidiano un’acuta scrittrice ha sostenuto che oggi «non bastano le primarie» e ha citato, per rafforzare la sua tesi, l’esempio della Spd tedesca che, con audacia, ha sottoposto ai suoi iscritti il testo dell’accordo con la Cdu per l’approvazione. Se non ci sarà, la grande coalizione non potrà decollare.
Così la Spd ha dimostrato di non essere vincolata dall’ossessione dello stato di necessità e della stabilità: due totem che invece hanno dominato in Italia. Sono d’accordo con questa analisi; salvo il giudizio sulle primarie, e lo dico pur avendo espresso anche su questo giornale dubbi e perplessità nei confronti degli effetti che può avere la democrazia diretta. Le primarie non vanno però considerate in astratto, ma nella situazione in cui si svolgono; ed oggi esse possono avere una funzione importante sia per la vita politica italiana che per il Pd. Sul primo punto non ci sono dubbi: è una grande esperienza democratica nella quale sono coinvolti migliaia di cittadini. Ma anche per quanto riguarda in modo specifico il Pd, queste primarie possono essere un passaggio decisivo. Per cosa è nato il Pd, cosa vuole fare sul piano ideale, politico, culturale? Se si guardasse a quello che il Pd ha fatto in questi ultimi anni sarebbe complicato rispondere perchè in quel partito si sono sovrapposte linee e strategie politiche diverse, in una confusione di lingue accentuata dalla «necessità» di confrontarsi con situazioni impreviste e per certi aspetti imprevedibili. È invece più facile dire che cosa vorrebbe essere il Pd risalendo alle origini, ai suoi «principi». Schematizzando essi sono due: costituire un partito nel quale confluiscano le principali correnti riformatrici della storia italiana, assumendo la fine delle forme politiche e partitiche novecentesche e dando vita a nuove esperienze ideali, politiche, organizzative; contribuire a riformare dalle fondamenta il sistema politico in termini bipolari per liquidare le tradizionali politiche centriste e il trasformismo che ne è stato spesso una naturale conseguenza.
Quando si parla di partito a vocazione maggioritaria è questo che si intende. Perché questo progetto ha stentato a dispiegarsi finendo su molti scogli? Mi limito a citare una sola causa, ma decisiva: la nascita del nuovo partito non si è intrecciata alla formazione di una nuova classe dirigente. E dicendo questo non penso a un ricambio di tipo generazionale, alla rottamazione: una formula efficace ma ambigua. Intendo dire che le redini del nuovo partito sono rimaste nelle mani della vecchia «nomenclatura» di matrice sia comunista che democristiana. Certo, quando si fanno operazioni così complesse è necessario mantenere alcune forme del passato, fosse solo per una elementare esigenza di «consenso», e non solo strettamente elettorale. Ma qui il «vecchio» ha afferrato il «nuovo» cancellando il problema stesso di una nuova classe dirigente e indebolendo il processo di formazione di una nuova e autonoma cultura politica. Chi farà la storia del Pd si troverà di fronte una singolare situazione, quasi metafisica: un nuovo partito fatto dagli stessi uomini, dagli stessi dirigenti delle formazioni originarie. Di per sé non è una novità; è tuttavia un esempio del potere della «burocrazia» sulla politica. Quando però questo accade vuol dire che si è nel pieno della crisi, e che non si riesce a individuare la strada per venirne fuori. Il Pd nasce, del resto, in questa crisi, ne è un figlio, ma in modi complessi e contraddittori. Anzi, per certi aspetti, non è mai nato, non ha mai spiccato il volo; tanto più colpiscono i successi che nonostante tutto è riuscito ad ottenere. Questo significa due cose: le radici da cui è nato sono forti e vitali, la sua formazione corrisponde ad una esigenza nazionale. E nonostante la sconfitta delle ultime elezioni non sono venute meno né l’una né le altre. Proprio il successo di un movimento come il M5S dimostra infatti la necessità nazionale ed europea di un moderno partito riformatore, capace di scelte radicali ed anche conflittuali. Se il Pd riuscisse finalmente a nascere, ad essere se stesso, l’acqua da cui Grillo raccoglie forza e consenso verrebbe progressivamente meno. Per poter nascere ed essere se stesso è però necessario che riprenda il filo laddove si è interrotto, costruendo una nuova classe dirigente coerente con i suoi «principi». Sta precisamente qui l’importanza delle primarie di oggi: nell’aver rimesso sul tappeto il problema della nuova classe dirigente, sulla base ovviamente di un «vincolo» comune.
Questo ci dicono i tre candidati in competizione: chiunque vinca, c’è stata un’importante assunzione di responsabilità, se il Pd intende diventare un pilastro della politica italiana quale fulcro di una nuova stagione riformatrice, fortemente bipolare, capace di affrontare i problemi dell’Italia. Certo, quello del rinnovamento, e della mobilità della classe dirigente non è l’unico problema, ma è diventato ormai un nodo decisivo che bisogna sciogliere, e non per motivi generazionali.
Perciò è auspicabile che oggi votino in molti, anche se in una situazione ordinaria dovrebbero essere gli iscritti a scegliersi il segretario del loro partito, e non la moltitudine. Ma qui, scendendo in mare aperto, si sta decidendo se il Pd debba avere un destino o decadere nei vizi che sono sotto gli occhi di tutti. E dopo la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum, non si tratta solo del destino del Pd: chiunque sia il vincitore, queste primarie possono contribuire a formare una barriera, contro l’ondata proporzionalistica che sta montando in questi giorni. Lo dico senza enfasi: per l’Italia sarebbe, da ogni punto di vista, un passo indietro assai grave.
L’Unità 09.12.13