Il verdetto della Consulta è molto più che l’eutanasia di una legge-truffa addirittura peggiore di quella voluta da De Gasperi e Scelba nel 1953. Con il Porcellum non muore solo un mostro giuridico che per ben otto anni e tre votazioni consecutive ha attribuito ai vincitori un potere abnorme (il premio di maggioranza al 55%) e sottratto agli elettori un diritto enorme (la libera scelta dei propri eletti). Con il Porcellum non muore solo un orribile Frankenstein concepito nel 2006 dai quattro improbabili sedicenti “saggi” del Pdl riuniti in una baita dolomitica, pronti a sacrificare la governabilità del Paese pur di sabotare la vittoria del centrosinistra di Prodi e di assicurare al centrodestra di Berlusconi la “nomina” dei suoi parlamentari. Con il Porcellum muore un intero ceto politico, che per quasi tremila giorni ha discusso a vanvera di riforme elettorali e costituzionali, ha litigato a sproposito di modelli franco-tedeschi e ispanoisraeliani, e non ha voluto né saputo rispondere alla domanda di modernizzazione e di partecipazione che arrivava dai cittadini, sempre più allontanati dal Palazzo ed esasperati dalla “casta”. Con il Porcellum muore la Seconda Repubblica, falsamente incarnata dal populismo berlusconiano e artificiosamente costruita sul bipolarismo coatto che ne è derivato. Con un solo, sacrosanto tratto di penna, i giudici della Corte riportano l’Italia dove merita: non al Mattarellum né alla promettente illusione maggioritaria di Mario Segni dei primi anni ’90, ma addirittura prima, cioè alla devastante stagione proporzionalista e consociativa della Prima Repubblica.
Le colpe di questa drammatica regressione politica sono tante, e tutte note. Prendersela con la Consulta, o alzare il sopracciglio severo di fronte ai contenuti della sentenza, è solo l’ultimo, estremo esercizio di cattiva coscienza di una classe politica cinica e bara. La Corte ha affondato la sua lama dov’era logico e giusto. Tutti, fin dal giorno successivo al varo di quella scelleratissima legge firmata dall’indecente Calderoli, sapevano che un dissennato premio di maggioranza (per altro diversissimo tra Camera e Senato) e un forsennato ricorso alle liste bloccate (per altro usate e abusate per portare in Parlamento nani, veline e ballerine) erano due autentici scandali della democrazia. Semmai
c’è da chiedersi, con tutto il rispetto, perché l’allora presidente della Repubblica Ciampi non abbia negato a suo tempo la sua firma a quel testo ingannevole e irragionevole, e soprattutto perché la pronuncia finale di incostituzionalità sia arrivata solo otto anni dopo. Ma questa è un’altra storia. Qui e ora, è essenziale ristabilire da un lato le responsabilità, e dall’altro individuare le soluzioni.
Le responsabilità sono complesse, e tutte politiche. Non solo per l’anamnesi della porcata calderoliana, che come si è detto nasce nella fabbrica degli orrori messa in piedi da un Ventennio dall’apprendista stregone di Arcore. Ma anche per la sua prognosi successiva, che in molti, troppi falsi “dottori” bipartisan hanno contribuito e rendere purtroppo così fausta. La verità è che il Porcellum è stato usato di volta in volta come arma di condizionamento e di ricatto, tra i poli e dentro i poli. Per impedire a volte il ricorso anticipato alle urne, per cristallizzare il sistema politico e trasformarlo in una foresta pietrificata, per scambiare altre “merci” più o meno avariate su tavoli paralleli, per intralciare leadership nascenti o accelerare “carriere” declinanti. Moventi disparati e disperati, comunque mai davvero attinenti con l’interesse generale, cioè garantire governi solidi e stabili e favorire al tempo stesso meccanismi di alternativa e di alternanza. Il risultato, ed è doloroso dirlo, è un Parlamento di zombie. Se non è palesemente illegittimo sul piano costituzionale (visto che la Corte ha voluto responsabilmente salvarlo fissando i suoi principi solo per l’avvenire), è sicuramente delegittimato sul piano politico (visto che non ha mosso un dito, pur conoscendo da tempo l’insostenibilità del quadro e la prossimità della mannaia attivata dalla Consulta).
Le soluzioni sono semplici, se solo l’establishment, o quel che ne rimane, avesse la dignità e la volontà di adottarle, come chiede ancora una volta, purtroppo inutilmente, il Capo dello Stato. Di fronte all’entropia politica nella quale l’Italia è precipitata, e di fronte alla follia giuridica dalla quale la Corte costituzionale l’ha giustamente riabilitata, ci sono due possibili vie d’uscita. La prima è quella che abbiamo imparato a conoscere sulla nostra pelle in questi lunghi, disastrosi e infruttuosi anni. Un’estenuante melina democristiana, dove si continua a dire l’indicibile e a non fare il fattibile, e dove si finge di negoziare un “prodotto” che alla fine nessuno vuole, cioè una riforma elettorale seria ed efficiente che ci eviti la condanna del ritorno al proporzionale. Questa soluzione sarebbe in perfetta continuità con la fase, perché nessuno si sognerebbe di aprire una crisi e di tornare alle urne con un sistema elettorale che sondaggi alla mano non farebbe vincere nessuno dei tre o dei quattro schieramenti in lizza. E dunque questa soluzione sarebbe congeniale alla blindatura delle Piccole Intese sopravvissute alla diaspora berlusconiana: converrebbe a Letta, che non correrebbe rischi fino al 2015 e oltre, e converrebbe ad Alfano, che avrebbe un altro anno per verificare la tenuta del suo presunto “Nuovo centrodestra” senza l’obbligo di un redde rationem
elettorale con il Cavaliere. Ma sarebbe una scelta mortale per il Paese, oltre che per la residua credibilità del Parlamento ancora in carica.
Resta la seconda via d’uscita, la sola e ultima occasione di riscatto concessa ad un ceto politico altrimenti impresentabile e offerta ad un Paese altrimenti irrecuperabile. Una riforma elettorale e istituzionale
vera, da presentare subito alle Camere e da spiegare agli italiani. Una legge costituzionale per superare subito il paralizzante bicameralismo perfetto, trasformando il Senato in una camera delle autonomie e dimezzando il numero dei parlamentari. Una legge elettorale per introdurre subito il maggioritario con doppio turno di collegio, come avviene in Francia, anche a costo di aprire un cantiere parallelo sulla forma di governo, ragionando se serve anche sul semi-presidenzialismo, che nella prospettiva post-cesarista legata al declino berlusconiano può cessare di essere un tabù. È la via sulla quale stavano lavorando Matteo Renzi, che in questa palude e privato dalla leva delle elezioni anticipate rischia di affondare anche se stravince le primarie di domenica prossima, e lo stesso Letta, che invece dalla “stabilità da cimitero” addebitatagli dal Wall Street Journal ha molto meno da perdere.
Non c’è più tempo per evitare la paralisi del Sistema-Paese, il collasso del suo circuito politico-istituzionale, lo strappo del suo tessuto economico-sociale, la disfatta della sua fibra civica e morale. Non c’ è più spazio per gli squallidi giochini del “tua culpa” e del “cui prodest”: una riscrittura immediata del patto costituzionale ed elettorale è utile prima di tutto all’Italia, e solo incidentalmente al sindaco di Firenze. E non c’è più margine nemmeno per i miserabili calcoli di bottega, tra le vaghezze di un Delfino che non si risolve ad affrancarsi da un Caimano e le furbizie di un “centrino” che non si rassegna alle logiche bipolari. Il Festival delle ipocrisie deve finire. O l’unica musica che sentiremo sarà quella delle campane a morto di questa povera democrazia.
La Repubblica 05.12.13