Ci sono due modi di raccontare la manifestazione indetta dai sindacati ieri a Prato con un corteo concluso al monumento ai Caduti sul Lavoro. Ecco, rapidamente, il primo: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone, alcune delle quali cinesi (oppure: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone, alcune delle quali italiane) si è svolto a Prato, per commemorare la morte di sette operai cinesi, e ricordare che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è un’infamia, dovunque avvenga, da parte di chiunque e contro chiunque. Ecco il secondo: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone eccetera, concludendosi con la lettura dei nomi di tutti i morti sul lavoro di quest’anno in Italia, e fra loro dei sette operai cinesi morti nel rogo di domenica mattina. Alcune centinaia di partecipanti erano cinesi, giovani tutti, donne e uomini e anche bambini.
Non era mai successo a Prato che membri della comunità cinese prendessero parte a una manifestazione indetta da italiani, e tanto meno dalle organizzazioni sindacali. Amministratori della città e responsabili delle sue associazioni hanno definito la manifestazione, che dall’esterno sarebbe parsa inadeguata alla tragedia sul e del lavoro, un evento storico. Italiani e cinesi si sono mescolati nel corteo, i nomi dei loro morti si sono mescolati nella lettura. Nel pomeriggio, nella seduta solenne del consiglio comunale che aveva decretato, per la prima volta, il lutto cittadino, la console cinese a Firenze, Wang Xinxia, era scoppiata in lacrime. Forse è stato un episodio, forse è stato un inizio.
Bisognerà continuare a raccontare la Prato dei cinesi e degli italiani nei giorni prossimi. Molto si è detto, a ridosso del rogo sciagurato. Fra ciò che si è taciuto c’è un sistema di poteri e connivenze durato tre o quattro decenni e ora culminante. Fra ciò che si è deformato è il ruolo del sindacato, denigrato indistintamente, anche quando sue donne e uomini si sono dedicati a un ideale internazionalista, perché così si chiama, dei diritti del lavoro. I dati sulla condizione attuale sono impressionanti. 4.830 imprese cinesi. 3.500 di “pronto moda” e Made in Italy contraffatto. Oltre l’88% di ditte individuali (!) con una vita media di 2 anni. 2 miliardi di fatturato annuo di cui almeno la metà fondato su evasione fiscale e manodopera “clandestina” (20-25 mila addetti). 12 mila addetti con contratto di lavoro, il 90% a tempo indeterminato ma a part time — in modo da far lavorare in nero il resto del tempo — e previa lettera di dimissioni in bianco. Turn-over del 45% contro il 13 delle imprese italiane. Cinesi presenti: 16 mila con residenza, 25-30 mila irregolari. A Prato non si produce per le firme del lusso: ma il distretto è l’unico ad avvicinarsi alla produzione di marchi colossali come Zara. Basterebbe obbligare alla tracciabilità per sventare la truffa planetaria dei trasferimenti di materie prime, prodotti lavorati e soprattutto denaro. La legge fa passare per Made in Italy un prodotto sul quale si siano eseguite da noi due lavorazioni: i bottoni o le etichette cuciti sopra, per dire. Tutti quei bottoni sparpagliati, così diversi, per fare la differenza… Poiché il Made in Italy è fatto solo in una infima parte della sostanza — stoffa, lavorazione — e per la grandissima parte della stoffa immateriale che fa sogni e desideri e griffe, abiti o borse o scarpe imbrattate di sangue sono destinati alla ripugnanza dei consumatori. La Nike si rassegnò alla trasparenza dopo lo scandalo dei palloni fabbricati dai bambini asiatici. L’ha fatto la Gucci, che in Toscana assorbe il 70% delle produzioni in pelle: il sindacato è messo a conoscenza dell’intera filiera e può verificare le subforniture. All’indomani della tragedia di Prato il
New York Times, lo Spiegel, la tv francese cercavano il sindacato toscano, consapevoli della partita: dopo la strage non compri più a Prato, e caso mai direttamente dai cinesi in Cina.
Fra i fautori della “mano dura” repressiva, insofferenti alla necessità di far riemergere il nero (compresi gli affitti al nero dei proprietari italiani) e separare servi da lavoratori, è difficile trovarne che non si siano serviti a propria volta, e magari all’avvio della metamorfosi pratese, del sublavoro cinese, e non siano passati poi a incassare la rendita parassitaria e illegale di affitti e vendite di capannoni e abitazioni. Intanto la Confindustria pratese ha due membri cinesi, la Confederazione dell’Artigianato ne ha 80. Non è difficile sapere che cosa fare, una volta che si sia detta la verità sul passato e sul presente. Alcune centinaia di cinesi avevano fatto la loro fiaccolata martedì sera. Ieri l’hanno rifatta coi pratesi e le bandiere sindacali — cinesi giovani, italiani anziani, per lo più. Lo si può raccontare in due modi. Quale sia il racconto giusto, dipende da tutti noi.
La Repubblica 05.12.13