Non saranno affatto una passeggiata la fine delle larghe intese e l’avvio della fase nuova, che dovrebbe prendere corpo dopo il dibattito e il voto di fiducia della prossima settimana. Il comunicato quasi a doppia firma, uscito dal Quirinale dopo un’ora di colloquio tra Napolitano e Letta, conferma che c’è una perfetta unità di vedute tra i due presidenti. Ma la lunga vigilia che ha preceduto il varo della verifica formale, in Parlamento, della maggioranza ristretta, ha già fatto capire che il calvario del governo non è finito.
Non è un mistero, infatti, che Letta, e in un primo momento anche Napolitano, puntassero a evitare lo stress di un altro passaggio parlamentare nel bel mezzo dell’interminabile discussione sulla legge di stabilità, tra l’altro ancora in corso e con la grana infinita dell’Imu che stenta a chiudersi. D’altra parte, il governo aveva dimostrato di avere la maggioranza al Senato, cioè nella Camera dai numeri più incerti, anche dopo la decisione di Berlusconi di passare all’opposizione.
Ufficialmente perché insoddisfatto dei contenuti della manovra di fine anno, di fatto come reazione al voto del Pd in favore della sua decadenza. Ma l’atteggiamento intransigente di Forza Italia, reso esplicito da una delegazione salita a questo scopo al Quirinale, ha convinto Napolitano dell’impossibilità di evitare la liturgia della verifica. La scelta del Presidente della Repubblica è racchiusa tutta in quella parola – «discontinuità» – inserita nel comunicato di ieri sera e subito sottolineata con soddisfazione dai due capigruppo di Forza Italia Brunetta e Romani. Era quel che volevano i berlusconiani, per dimostrare che la rottura è seria e le conseguenze non stanno affatto trascurabili.
Per capire di che tenore sarà l’epoca successiva alle larghe intese, però, non occorrerà aspettare la prossima settimana. Basta già guardare quel che sta accadendo in questi primi giorni di sperimentazione dopo il cambiamento del quadro politico. Le due destre, nate dalla scissione del Pdl e presentate dal Cavaliere come se fossero rimaste apparentate, sono invece entrate in una fase di guerriglia, in cui praticamente ogni giorno Alfano e il suo Nuovo centrodestra sono sottoposti a un fuoco di fila di tutta la pattuglia berlusconiana, che tende a raffigurarli deboli e sottomessi al centrosinistra. Alfano, per reagire a queste polemiche, pesanti da sopportare per un partito che sta ridefinendo i confini della propria offerta politica, deve necessariamente aggiustare il tiro su Letta e il Pd: cosicché adesso scricchiola, per la prima volta, il famoso asse tra i dioscuri di Palazzo Chigi – il premier e il suo vice – che fin qui erano stati i due principali pilastri del governo. Inoltre, non appena Alfano ha alzato la testa, invocando, prima della verifica, la definizione di un vero e proprio «contratto di governo», stile Merkel, con il Pd, Renzi, che si comporta già da segretario, con una delle sue battute caustiche («Voi siete trenta e noi trecento») gli ha sparato addosso, per fargli capire come intende i rapporti di forza nel governo di qui a venire.
Sarà pur vero, come sostiene Letta, che anche questo fa parte della campagna per le primarie che si conclude domenica. E sarà ovvio, per Renzi, che puntava non da adesso a spostare verso di sé una parte dei voti del centrodestra, che la scissione del Pdl in due tronconi e la nascita di due destre, una più centrista e governativa e l’altra più radicale, non giovano certo ai suoi propositi, specie in vista delle elezioni europee.
Ma insomma, anche senza drammatizzare – non ce n’è affatto bisogno -, chi pensava che la fine delle larghe intese, non foss’altro per stanchezza, dopo sei mesi di risse, potesse coincidere con una tregua – e magari con l’approvazione di qualcuna delle riforme più urgenti, a partire dalla legge elettorale su cui oggi si pronuncerà la Corte Costituzionale – purtroppo dovrà ricredersi. La guerra continua.
La Stampa 03.12.13