La commozione è arbitraria, anche in mezzo a una tragedia vi sopraffà con un dettaglio. Sul pavimento nero di acqua e cenere erano i bottoni: centinaia, migliaia di bottoni disseminati di ogni misura e colore. Archeologia contemporanea, un tappeto di bottoni alla deriva per una Pompei di cinesi a Prato. Un’altra cosa colpiva e quasi esasperava: che, di qua dai cordoni tesi per proteggere la fatica dei soccorritori, gli italiani — e telecamere fotografi e cronisti — stessero nei propri capannelli, e i cinesi, giovani quasi tutti, donne e uomini, e qualche bambino, nei loro. Eppure faceva molto freddo e tirava un gran vento, lo stesso freddo e lo stesso vento per cinesi e italiani. Non credo né al cinismo né all’ottusità, piuttosto a un’abitudine a pensare che gli altri non vogliano avere a che fare con noi, che se ne stiano fra loro. Lo pensiamo senz’altro dei cinesi — non senza buone ragioni — e probabilmente lo pensano i cinesi di noi, e anche loro hanno qualche ragione… Però ieri erano lì per i loro morti, e bisognava andargli in mezzo, dar loro la mano, abbracciarli, con rispetto, ma senza esitazione. Si sarebbe scoperto che erano pronti a fare altrettanto. Che avrebbero usato il loro italiano, quelli che ce l’hanno, per dirvi che l à c’era un fratello, uno zio, una cugina, e se sapeste niente dei morti, quanti, e come si chiamassero. Sarebbe stato il giorno di una tragedia terribile, ma anche il giorno in cui gli italiani e i cinesi si abbracciarono. Forse per ò lo si è fatto, e comunque oggi si è ancora in tempo.
Un po’ dopo le quattro di pomeriggio viene fuori da quell’antro fumigante il medico legale, ha visto tre cadaveri, o piuttosto quel che resta di tre cadaveri. «Una è una donna, gli altri sono monconi che impediscono di riconoscerne il sesso, per ora». Il medico si chiama Alberto Albertacci, ha baffi e fisico del ruolo, ne ha viste tante. Tre giorni fa era stata la volta di una donna seppellita alla meglio, dentro un sacco di plastica, in un campo di periferia: probabilmente una cinese. Ma qui è un’altra cosa, dice. All’obitorio ci sono quattro cadaveri, e il conto per ora sale a sette. Dei quattro ricoverati, due sono stati dimessi e due sono in condizioni gravi: «Ma non disperate », dice il prefetto di Prato, Maria Laura Simonetti, qui da tre mesi. Vorrei chiederle, appena ci sarà tempo, quanti sono in prefettura i funzionari e gli impiegati che parlano, cioè ascoltano, cinese, e quanti in questura. Questa è, dopo Londra e Parigi, la terza città cinese d’Europa.
I vigili del fuoco sono venuti da tutte le province — Prato è a un crocevia, Firenze, Lucca, Pistoia, Pisa — lavorano da stamattina e non ne sono ancora venuti a capo. Temono che in quell’ammasso ci siano altri esseri umani. Notizie sicure su quanti fossero dentro quando è scoppiato l’incendio non ce ne sono: si spera che siano scappati in tempo. Stamattina era venuto fuori, per fortuna incolume, anche un bambino. I loculi: li chiamano tutti così, con naturalezza, come se l’abitudine avesse fatto dimenticare che cosa significasse all’origine quel nome, che oggi è tornato a significarlo. Le vittime, probabilmente, non stavano lavorando. Si lavora pressoché sempre, ma soprattutto di notte, e magari si erano messi a dormire, e avevano cercato un modo di riscaldarsi, perch é con la prima mattina di dicembre era arrivato anche il freddo e il vento peggiore. «Lavorano e caricano i camion di notte, per evitare i controlli»: non ho il tempo, ora, per chiedere come mai, dopo l’invenzione dell’elettricità, i tir caricati di notte passino più inosservati. Del resto, quanto ai controlli, sindaco, dirigenti dell’Usl, polizie, spiegano che pressoché ogni ispezione si conclude col sequestro, e però tu fai 300 ispezioni e le fabbriche sono migliaia, rispuntano come funghi, spesso senza nemmeno curarsi di sembrare fabbriche. Questa volta la tragedia è successa nella zona sviluppata, “commerciale”, e non nei vecchi capannoni attaccati ai formicai umani: a mostrare che loculi di dormitorio e show-room si adattano gli uni alle altre. Sono arrivato fin là dentro col presidente della Toscana, Enrico Rossi, che dice che di questa tragedia, e della quotidiana umiliazione dell’umanità che si compie dentro questo famoso Distretto delle Confezioni «siamo tutti responsabili »: e intende gli amministratori e lo stato. La sinistra ha guidato Prato negli anni in cui sul successo rigoglioso dei cenci cominciava a innestarsi la colonia cinese, e ambedue le comunità, o una loro buona parte, ci guadagnavano, sicché si preferiva ignorare o rinviare i problemi che quello sviluppo tumultuoso avrebbe posto. La sinistra finì col perdere Prato, grazie alle proprie divisioni infantili e senili, e fu una sconfitta forse provvisoria ma simbolica, per il luogo in cui avveniva e per lo spazio che lasciava a una campagna d’ordine xenofoba tanto chiassosa quanto velleitaria. La comunità cinese era stata trattata come se fosse invisibile: ma perché le cose siano invisibili bisogna che, almeno per una metà, ci sia chi preferisce non vederle. Lì davanti, ieri, alla domanda su quanti siano i cinesi che lavorano (e vivono, ammesso che gliene resti il tempo) a Prato, il sindaco Cenni rispondeva paradossalmente: «Ufficialmente 16 mila, in realtà fra i 20 mila e i 40 mila — ma il console una volta si è lasciato sfuggire che secondo loro sono 50 mila…». Questa iperbolica incertezza coincide con una extraterritorialità crescente: è come, dice Enrico Rossi, se il tessile di Prato, e tutta la città, capannoni negozi e appartamenti, si fossero delocalizzati segnando il passo, restando dov’erano, in una Cina domestica. Che lavora 15 o 16 ore al giorno se va bene, che viene pagata abbastanza da produrre un cappotto di marca a 19 euro, così che i clienti europei del prêt-à-porter possano comprarselo a 100 o 200. Questa rete di produzione e smercio, una gran Rosarno dell’abbigliamento piuttosto che dei pomodori o delle arance, ha poco a che fare con leggi e diritti italiani, ed è piuttosto governata da un racket cinese dell’usura e delle estorsioni che le fornisce i servizi necessari: un doppio regime fiscale e in sostanza statale. Le sfuriate repressive ci sono state, ma i soli metodi di polizia, per essere efficaci, porterebbero alla cacciata intera della popolazione cinese di Prato, che è una pazzia. E invece una riemersione del lavoro illegale capace di progressi elementari come assicurare un’abitazione e una dignità a chi lavora, e insieme di proteggere un’economia non più affidata allo schiavismo, esige che se ne occupi lo Stato italiano, rivendicando a sé l’autorità che gli compete in un proprio prezioso territorio, e trovando con l’interlocutore cinese il compromesso adeguato: finché la criminalità cinese si limiti a colpire, com’è ancora, i propri connazionali. I cinesi hanno, grazie alla Toscana, una sanità efficiente, che comprende condizioni peculiari per le partorienti. Ma una svolta vera non può essere locale. Prato sente di essere stata ignorata dal Quieto Vivere dello stato italiano, dagli anni ‘60 e ‘70, quando raddoppiò turbinosamente la popolazione. Nel 1992 lo stato le regalò il titolo di provincia, che è come il sigaro, che non si nega a nessuno, e prima o poi si rinnega. La strage di ieri è una piccola Lampedusa. Ha acceso una luce sulla Cina pratese: peccato che fosse una luce di rogo.
La Repubblica 02.12.13