Il liceo classico è in crisi. Negli ultimi mesi e settimane si è parlato molto di questo tema, anche sui quotidiani, e per la verità, visto il modo in cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, dovremmo stupirci del contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche lavorano nei
call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano: perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura” si è trasformata in una sorta di hobby senza oneri per lo Stato, capace di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri “beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo “culturali”. Ciò detto, penso che allontanare per un momento lo sguardo, per riflettere sul problema della presenza della cultura classica nelle scuole italiane – “latino”, “greco” o “latino e greco” che sia – , potrebbe risultare più utile che non fare semplicemente della polemica.
Cominciamo dunque col constatare che la scuola superiore italiana appare ancora caratterizzata da una notevole presenza del latino nell’insegnamento liceale, soprattutto se si analizza questo dato tenendo a mente la frequente obbligatorietà di questa disciplina nei licei. E questo anche a dispetto della continua erosione di ore che l’insegnamento delle materie classiche ha subito, e continua a subire, ad opera delle sempre nuove indicazioni ministeriali.
Ritengo importante che le civiltà classiche continuino a far parte della nostra enciclopedia culturale; sono però altrettanto convinto che questo legame di memoria debba ormai passare attraverso un paradigma differente, più vicino alle esigenze culturali della società contemporanea.
Il fatto è che lo studio delle materie classiche, e del latino in particolare, si fonda su un’idea di cultura piuttosto parziale: “cultura” nel senso di apprendimento di una lingua nobile – né io intendo certo mettere in dubbio questa caratteristica – , della sua poderosa grammatica e della relativa storia letteraria. Altri aspetti della civiltà classica non vengono sostanzialmente presi in considerazione: eppure sarebbero proprio quelli che compongono il paradigma della “cultura” nel senso che l’antropologia ha dato a questa parola; ma soprattutto nel senso che oggi si dà a questa espressione, quando parliamo di “incontro fra culture”, di “conflitto fra culture” o dei “mutamenti culturali” a cui la nostra società va quotidianamente incontro.
Questo mi pare il punto centrale della questione. Lo studio del latino o del greco nella sola prospettiva di apprenderne la lingua non mi pare più attuale; allo stesso modo, penso anche che uno studio puntiglioso della storia letteraria di Roma antica – le tragedie perdute di Ennio, la data di composizione delle orazioni di Cicerone, le bucoliche di Nemesiano – suoni decisamente fuori tono nella scuola di oggi. Quello che occorrerebbe far conoscere ai giovani è piuttosto la cultura antica nel suo complesso, non solo nelle sue forme tradizionalmente codificate.
Parlare del significato che la divinazione aveva per i Romani, della loro organizzazione familiare, del modo in cui essi concepivano la religione, il sogno, i modi del «raccontare», suscita negli studenti un immediato interesse. La ragione di ciò è molto semplice. Vista sotto questa forma, la cultura romana si presenta inaspettatamente altra, diversa dalla nostra, uno spazio privilegiato in cui sperimentare che si può vivere anche in tanti altri modi, i quali non sono necessariamente identici ai nostri.
I Romani avevano nomi e comportamenti differenti per ciascuno dei vari “zii” e “zie” che componevano la famiglia, attribuivano un enorme significato ai processi divinatori – prima di attaccare battaglia, ogni generale leggeva scrupolosamente le viscere della vittima sacrificale o osservava come beccavano i polli – , adoravano piccole divinità che stavano nel focolare, nutrendole con una patella, e tenevano in casa donnole e serpenti domestici. Ce n’è già abbastanza per incuriosire qualsiasi studente, e spingerlo a chiedersi perché mai i Romani si comportassero in questo modo. Lo stesso si può dire dei momenti in cui si mettono
i ragazzi di fronte all’origine o al significato di certe parole, possibilmente ancora vive nella nostra lingua – operazione peraltro non difficile, visto che l’italiano ne ha talmente tante, di queste parole, da poter essere considerato a buon diritto un semplice “dialetto” del latino, ovvero un latino parlato male. Se si spiega agli studenti, per esempio, che il termine monstrum “mostro” deriva da monere «far ricordare», questa semplice esperienza linguistica li metterà di fronte al fatto che, per i Romani, la “mostruosità” era una categoria religiosa: un vitello con due teste o una pioggia di meteoriti erano per loro non un disguido della genetica o un fenomeno astronomico, ma altrettanti messaggi che giungevano loro da parte degli dei, per ammonirli del fatto che la pax con i signori del mondo si era incrinata. Sperimentare l’alterità dei Romani può indurre i giovani anche a pensare che modi di vita diversi, anche quando ci vengono da società lontane nel tempo o nello spazio, non sono necessariamente inferiori ai nostri, modelli culturali sorpassati o semplicemente barbari; al contrario, ci si può accorgere che in queste differenti configurazioni culturali esistono elementi di civiltà estremamente interessanti, su cui vale la pena di riflettere soprattutto per comprendere meglio “noi”, oltre che “loro”. E questa costituisce, assieme alla tolleranza, un’acquisizione formativa di estrema importanza.
Il liceo classico è ancora, a mio giudizio, un’ottima scuola, che vediamo invidiata dai nostri concittadini europei ogni volta che capita di parlarne. Perché dunque distruggere, o snaturare – piuttosto che cercare di potenziarla in ogni modo –, una delle non molte istituzioni italiane che hanno credito anche fuori dal nostro Paese?
In ogni caso, se mi fosse permesso concludere queste riflessioni con una piccola punta polemica, vorrei affermare quanto segue. Qualora un ministro della Pubblica istruzione decidesse, a un certo punto, di ridurre ulteriormente il peso orario dell’insegnamento del “latino” e delle materie classiche in generale – ovvero nell’ipotesi deprecabile di una sua abolizione – ci piacerebbe perlomeno avere la possibilit à di dire la nostra sulle materie con cui lo si vorrebbe sostituire. Perché se la scelta dovesse cadere su ore di socializzazione, educazione a esprimere se stessi, lettura del codice della strada (per prendere la patente di guida), riscoperta delle radici identitarie attraverso i dialetti, apprendimento di una seconda lingua straniera – da sommare all’ignoranza della prima – realizzato attraverso l’opera di un insegnante che a sua volta non la sa, e altre trovate del genere, il danno che la cultura italiana riceverebbe da simili decisioni risulterebbe davvero irreparabile.
La Repubblica 30.11.13