Come poteva il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi convivere con i suoi “carnefici”? Naturale, scontato, ovvio che sbatta la porta e se ne vada. Per andare dove non è chiaro. A raggiungere Beppe Grillo in una forsennata cavalcata anti-europea e populista per sfasciare tutto e portare a casa qualche eurodeputato alle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo?
A rinvigorire il sopito e mai dimenticato furore “anti-comunista”, nonostante l’ingresso in scena di Renzi e di tutta una nuova generazione “post”? A rilanciare il fantasma della cosiddetta rivoluzione liberale, araba fenice di cui si sono perse le tracce fin dall’estate del 1994? A bombardare quotidianamente il governo Letta e i traditori alfaniani, l’altro giorno blanditi come compagni che sbagliano ma da ritrovare al momento della battaglia finale, e ora additati al disprezzo dei seguaci duri e puri del Cavaliere? Qualunque sia la scelta strategica di Berlusconi, il vicolo è cieco. Da una parte c’è il muro invalicabile del grillismo, mille volte più efficace, penetrante e “nuovo” rispetto alla malinconica riedizione di Forza Italia, puro atto politico nostalgico, e quindi regressivo e perdente. Dall’altra ci sono gli scissionisti di Alfano, interpreti, potenziali quanto meno, di un moderatismo di centro-destra agguerrito ma non barricadiero.
Non è quindi la fuoriuscita in sé di Berlusconi e dei suoi che può impensierire Enrico Letta. L’esecutivo non ha nulla da temere da quella parte. Ogni mossa è prevedibile e scontata. Qualche graffio potrà ancora procurarlo ma le truppe si stanno oramai dislocando altrove, verso interpreti più credibili. Soprattutto più nuovi. Perché è di questo, con tutti i limiti del nuovismo, che l’opinione pubblica va in cerca. L’appeal di Matteo Renzi sta tutto lì, adesso; poi si vedrà.
Ad ogni modo il governo si trova in una condizione inedita. Non è più quello prefigurato da Giorgio Napolitano e osannato dai sostenitori della “pacificazione”, termine finalmente caduto in disuso dopo una frastornante grancassa di mesi. Le larghe intese si sono ristrette al minimo indispensabile sul piano numerico ed hanno perso il significato originario.
Se l’idea iniziale del governo Letta prefigurava una sorta di grande coalizione — alle vongole peraltro, perché mancavano tutti i presupposti politici, culturali e istituzionali per insediarla — ora siamo ad un governo di sinistra con una piccola pattuglia di moderati al fianco. Una sorta di ipotesi bersaniana, se Pd e Scelta civica non avessero fallito la prova delle urne. In linea teorica un esecutivo privo dei guastatori berlusconiani dovrebbe godere di una navigazione più tranquilla. Ma, in realtà, il Nuovo Centro Destra di Alfano quanto è lontano ideologicamente e politicamente dal ceppo originario? In che cosa si differenzia al di là del voler continuare l’esperienza di governo? Sono più filo-europei e meno anti-istituzionali, più pro-labour e meno anti-immigrati dei forza-italioti? Il distacco dalla casa madre non si è ancora nutrito di idee, riferimenti e scelte politiche dissonanti. Solo qualora acquisisse i tratti di una vera destra europea il percorso di Letta avrebbe ancora senso: la sua piccola coalizione farebbe da levatrice a quel raggruppamento autenticamente moderato che da sempre manca alla politica italiana. Solo che non può farlo curvando ulteriormente in senso conservatore la propria azione. Anzi. Privo del fardello berlusconiano l’esecutivo non ha pi ù impacci per imporre una politica che rappresenti gli orientamenti della sua maggioranza parlamentare: 300 contro 30, ricordava con classica burbanza toscana il sindaco di Firenze. Il sigillo democrat sull’azione di governo, che sarà molto più incisivo dopo le primarie dell’8 dicembre, può quindi mandare all’aria le piccole intese.
L’esecutivo Letta sarà forse un po’ più coeso; certamente non è più forte. Il suo baricentro, rimasto in equilibrio per tutti questi mesi, una volta persa la sua ala destra, si sposterà inevitabilmente a sinistra. Resisteranno i “nuovi moderati”?
La Repubblica 27.11.13