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“In ricordo di Srebrenica”, di Simone Arminio

SREBRENICA — Prima della guerra era una ridente cittadina. L’11 luglio del 1995 per i suoi trentamila abitanti, colpevoli di appartenere all’etnia sbagliata, è iniziato l’inferno. Qualcuno ce l’ha fatta, fuggendo nelle città vicine, altri no. Più di ottomila giacciono nelle fosse comuni —

Srebrenica siamo noi. Siamo i palazzoni bruciati del centro cittadino, simbolo di ricchezza e decadenza, dove la gente trova ancora la forza di vivere. Srebrenica, in bosniaco significa “montagna d’argento”: prima della guerra era una ricca città termale a maggioranza bosniacca (l’etnia musulmana che si oppone a quella serba, di religione ortodossa).

Un paradiso terrestre che le milizie del generale Ratko Mladic hanno cancellato in poche ore, l’11 luglio 1995, quando i trentamila abitanti di Srebrenica, colpevoli solo di appartenere all’etnia sbagliata, sono stati assediati e spinti a fuggire nella vicina Potocari, sede della forza di interposizione Onu, con il miraggio della salvezza.

Chi ce l’ha fatta è sparito nei boschi, in alcuni casi per sempre, in altri arrivando sano e salvo oltre l’assedio, in Croazia o nella vicina Tuzla. Gli altri, 8.300 uomini dai sedici ai sessant’anni sono stati uccisi uno per uno con un colpo in testa, poi dispersi in fosse comuni. Un lavoro così pulito che le loro donne, mogli e figlie superstiti, ancora oggi, quattordici anni dopo, quando arriva la chiamata si alzano di buon mattino e vanno a Tuzla per riconoscerne vestiti e ossa con la prova del Dna.

NELLA MEMORIA RIMOSSA DALL’EUROPA
Oggi la guerra non c’è più, e nemmeno la Jugoslavia, ma il senso delle differenze fra Stati ed etnie corre ancora silenzioso lungo i confini. Come quello marcato dal ponte sul fiume Sava, al confine tra la Croazia e la Bosnia, che attraversiamo in un pomeriggio di giugno. Alle nostre spalle la Croazia turistica e occidentale, che della guerra conserva solo un lontano ricordo. Subito dopo la Bosnia, paradiso di verde e abbandono.
A pochi passi dalle spiagge dei ricchi villeggianti italiani e tedeschi, ecco spuntare le prime case sventrate dai colpi di mortaio, le vecchie automobili spigolose e cariche di frutta, le donne curve nei campi a raccogliere il fieno in alti covoni. Ci dirigiamo verso Tuzla e per chilometri di strada siamo l’unica macchina immatricolata dopo il duemila, fra uno sciame crepitante di vecchie Opel Kadett, Fiat Uno di prima generazione, spigolose Volkswagen dai fanali tondi e i colori sbiaditi.
L’arrivo in città non è dei migliori: piove, e i venditori di funghi ai bordi delle strade raccolgono le loro cassette, mentre le macchine e i vecchi autobus di linea ruggiscono nubi nere di fumo per fare manovra e liberare gli incroci. L’ambiente circostante, fatto di stabilimenti industriali abbandonati al proprio destino e vecchie case ancora abitate anche se parzialmente distrutte, non lo dimostrerebbe, eppure Tuzla vuole reagire. In questi giorni d’ estate le scuole sono chiuse, e i giovani hanno voglia di divertirsi.
Il sabato pomeriggio si raccolgono tutti in un giardino della memoria, in pieno centro, a pochi metri dal luogo dove sono sepolti i loro 71 coetanei, uccisi da una granata nella piazza della città vecchia durante i festeggiamenti per la firma dell’armistizio. I volontari dell’associazione Tuzlanska amica ci spiegano che per i ragazzi di Tuzla ritrovarsi in quel giardino è un po’ come una ginnastica mentale per riannodare i fili interrotti fra due generazioni e mantenere vivo il ricordo di ciò che è accaduto, alle soglie del terzo millennio, a pochi chilometri dall’Occidente dell’Europa e dei diritti civili.

SOTTO IL CIELO DI TUZLA
La Bosnia del dopoguerra è uno Stato dove le ferite sono ancora insanabili. Ricostruire l’anima non è facile e, a quattordici anni dalla guerra, le famiglie sono ancora divise: padri serbi al di là del confine, mogli bosniache di qua, coi loro figli. A così tanti anni di distanza, i serbi di Bosnia non sanno tornare. Il motivo è una sorta di barriera impalpabile che li divide con i bosniaci, per i quali non odiare è ancora troppo difficile, anche se si tratta di parenti e amici. Perciò, ancora oggi, le case della popolazione serba a Tuzla sono vuote, e i rapporti fra le etnie sono regolati da un tacito accordo: è meglio vivere in pace separati piuttosto che assieme.
Qualcosa della pax di Tito si è rotta insanabilmente e il tempo ha peggiorato le cose. Così, in un territorio storicamente fondato sulla convivenza fra etnie, dove la religione, proprio perché diversa, era solo un fatto intimo, oggi appaiono i segni di un’alterità duramente rivendicata. Da qualche tempo i veli, prima inesistenti, sono spuntati sulle teste delle donne musulmane, e nell’intera regione crescono ogni anno nuovi minareti, mentre le nuove coppie miste subiscono il silenzioso impeachment delle rispettive comunità. Difficile dimenticare. E per questo nelle strade della Bosnia post bellica sono di nuovo spuntati i cartelli stradali in doppia lingua, quella serba di matrice cirillica e quella bosniacca a caratteri slavi.
È una pace fredda: ognuno cerca la convivenza ma non più l’amicizia. A Tuzla le associazioni bosniache e quelle occidentali, soprattutto italiane, sono in prima linea ogni giorno per ricostruire coscienze e case. Una delle azioni di volontariato più importanti, ci spiegano, è insegnare a ricordare a chi c’era e a chi non c’era. Per far ciò, una tappa fondamentale è il Memorial cemetery di Potocari. La nostra guida, Selma, è una giovane bosniaca che è venuta in Italia, all’università di Bologna, per specializzarsi in Diritti umani. In macchina ci parla della vita in Bosnia e, mentre risponde alle nostre domande, il paesaggio fuori da Tuzla muta velocemente.
Lungo una striscia d’asfalto che attraversa i campi dove il fieno è raccolto in alti pagliai a cono, le case sono ancora segnate dai buchi dei mortai. Fuori l’abitato di Tuzla l’attività principale è quella dei contadini. Donne dirette verso i campi trascinano sul bordo della strada i lunghi attrezzi da lavoro, altre accompagnano i bambini a scuola, in fila indiana ai lati della campagna La Bosnia è donna, perché i mariti quasi sempre riposano nei sacrari come quello di Potocari, o lungo le strisce continue e ordinate delle sepolture che si susseguono con regolarità fra un campo e l’altro, lungo la statale.

LA FABBRICA DEGLI ORRORI
Capelli raccolti e sguardo impietrito. È una delle “donne di Srebrenica”, l’associazione che lavora da anni per il riconoscimento delle vittime e la costruzione di questo luogo della memoria, il Memorial Center and cemetery di Potocari. Racconta che riportare i morti a Srebrenica è l’unico modo per ridarle vita. Alle sue spalle, una distesa di colonne di marmo liscio e squadrato raggruppa insieme le linee della successione di intere famiglie, generazioni di padri, figli e nipoti i cui nomi sono incisi nel marmo che circonda il luogo di preghiera. Il colpo d’occhio è agghiacciante.
I cognomi si susseguono come in un anagrafe di un paese, di fianco il nome del padre e le date di nascita. Non quella di morte, che è scolpita nel marmo all’ingresso del cimitero, perché è uguale per tutti. L’undici luglio 1995, qualche mese prima della pace di Dayton, i serbi avevano occupato le campagne circostanti. Molte delle famiglie di etnia bosniacca furono incitate a sfollare a Srebrenica, poiché la città era stata dichiarata area di sicurezza dall’Onu. La crudeltà di quei giorni, quella che si legge ancora negli occhi delle donne di Srebrenica, è la stessa che stagna nell’aria rancida della fabbrica degli orrori, che campeggia intatta dall’altro lato della strada.
Lì dentro tutto è ancora fermo a quell’11 luglio 1995: come la “Sala dell’inseminazione”, luogo privilegiato per gli stupri di massa, o la “Sivi dom”, stanza delle impiccagioni, e più di ogni altra cosa le scritte sui muri, lasciate dai carnefici a crudele testimonianza delle atrocità compiute. Altre scritte sono in inglese o in olandese, la lingua dei soldati del contingente Onu. Gli stessi militari che quell’11 luglio rimasero inerti a guardare la strage più terribile della storia umana.
Erano privi di una risoluzione del Consiglio dell’Onu che desse loro «forze, mezzi e autorizzazione per agire », e perciò in seguito furono scagionati da ogni accusa. A differenza delle scritte sui muri della fabbrica, le colonne paramilitari del generale Ratko Mladic, incriminate dall’Aja per la strage di Srebrenica, si sono dissolte alla fine della guerra, come se non fossero mai esistite. Così come fino alla scorsa estate, quando è stato catturato, poteva non essere mai esistito Radovan Karadžic, il presidente serbo ritenuto fra i principali istigatori della pulizia etnica in Bosnia.
E, come i loro carnefici, anche molte delle vittime non hanno un nome. Il lavoro di riconoscimento è lento e difficile, anche se la rappresentante delle donne di Srebrenica giura che le bosniache non avranno pace finché l’ultimo dei loro uomini non sarà stato riconosciuto e portato a riposare qui, a Potocari.
Per questo motivo, dalle fosse comuni che a fatica vengono rinvenute nei boschi, si raccoglie sempre tutto il possibile: stralci di camicia, piccoli resti di ossa, oggetti personali. Il tutto viene catalogato e trasportato in un centro specializzato a Tuzla, dove le donne possono riconoscere i resti dei loro cari ed effettuare l’esame del Dna. In questo modo l’undici luglio di ogni anno i resti delle nuove vittime riconosciute possono essere sepolti a Potocari, insieme agli altri, in una silenziosa commemorazione.

SREBRENICA NON SI DIMENTICA
Superata la pianura di Potocari la strada provinciale prosegue inerpicandosi lungo la montagna, fino a raggiungere l’abitato di Srebrenica. Prima del 1995 Srebrenica era una ridente cittadina di 40mila abitanti, ricca, vitale e culturalmente rigogliosa. Oggi è un paese decimato, ferito, bruciato: ridotto a 9.000 abitanti, di cui solo mille in età scolastica.
«Vivere a Srebrenica oggi», afferma Infanka Pasagic, psichiatra e presidente dell’associazione Tuzlanska amica, «è fortemente dannoso per la salute e i bambini, circondati dai segni dell’odio e della violenza, crescono mentalmente insani». Lontana anni luce da ogni contatto con la ricostruzione, qui infatti la gente percepisce ancora oggi il peso di tutto quello che è successo. I palazzi del centro sono ancora sventrati, la disoccupazione è alle stelle e le famiglie sono disperate. Per questo Srebrenica è una città uccisa, nell’aspetto e nella dignità, ed è ancora difficile riuscire a trovare una convinzione per sentirsi nel giusto.
È difficile, d’altronde, incontrare il coraggio per reagire, soprattutto se il Tribunale dei diritti dell’uomo respinge la richiesta di indennizzo a favore dei sopravvissuti, stabilendo che quello che avvenne a Srebrenica è stato un genocidio messo in atto da singoli individui e che perciò lo Stato serbo non può essere ritenuto direttamente responsabile. Ricordare allora, continuando a testimoniare la propria esistenza, in ogni aspetto della quotidianità. Anche per questo Srebrenica dovrà rinascere.

da www.terranews.it