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“Uomini la questione maschile”, di Adriano Sofri

Pressochè ciascuno, se guarda abbastanza in profondità dentro se stesso (non troppo in profondità: si annega), se è capace di ricordare la propria formazione di maschio, paura e spavalderia, ignoranza e presunzione, riconosce con raccapriccio il capo di un filo che porta dei suoi simili, ammesso che non abbia portato lui stesso, a molestare, violentare o uccidere una donna. Ho appena incontrato Mary Pereira Mendes, signora indiana che lavora per l’Unicef in Kurdistan e fra i profughi siriani, e guida un programma contro le mutilazioni genitali femminili. Mary spiega la difficoltà incontrata nelle donne, levatrici e madri, attaccate all’orrenda tradizione, attente tutt’al più a una modalità d’intervento più “pulito”, e disposte a barattare l’infelicità sessuale con la gratificazione domestica. La tradizione è patriarcale, dice, ma sono le donne a trasmetterla, e non di rado gli uomini la ignorano. Penso che proprio questo riveli l’ottusità della sessualità maschile: se gli uomini non si accorgono e comunque non danno peso alla negazione del piacere sessuale delle “proprie” donne, è perché il loro stesso piacere sessuale è mutilato. Il maschilismo immagina che scopare sia un bisogno naturale — uno sfogo necessario — dell’uomo, che al bisogno le donne vadano, con le buone o le cattive, adibite, e che l’eventualità che partecipino del piacere sessuale ne sveli la depravazione, magari nello stupro: “Gode, la troia”. Rispetto allo schema miserabile, le cose vanno più o meno avanti, e a volte tornano indietro, come quando si dà la caccia a un evaso. Evadono le donne, e uomini danno loro la caccia per riportarle dentro, o farle fuori. Da noi la caccia è vietata: a chi non ce la fa proprio, non resiste all’eventualità che la “sua” donna diventi di un altro, o anche soltanto decida di non essere più “sua”, resta il bracconaggio. Botte, minacce, coltellate di frodo. Una questione maschile.

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“Quando il tuo amico diventa il carnefice della porta accanto”, di GABRIELE ROMAGNOLI
QUESTA è la piccola storia di un grande errore. Commesso, anche, da me. Troppo giovane, se bastasse come giustificazione, per capire. Avevo vent’anni, durante l’estate andai in vacanza su un’isola, affittando una casa sulla scogliera. Eravamo in quattro: io e la mia ragazza, un mio caro amico e la sua. Le vacanze in doppia coppia possono essere un inferno, quella lo fu. Dopo due settimane di silenziose divergenze convinsi la mia compagna a passare una notte altrove, per rilassarci finalmente. Tornammo e c’era quiete, anche tra noi. La cosa curiosa era che la ragazza del mio amico ora portava uno spesso strato di crema protettiva sul volto. Spiegò che si era scottata addormentandosi al sole. Dopo due settimane? Strano, ma non impossibile, data la sua carnagione chiara. Primo errore.
Lo capii quando, in piena notte, bussò concitata alla nostra porta. Aprii: senza crema, il volto appariva tumefatto su un lato. Mi superò singhiozzando. Rimasi in corridoio, di fronte al mio caro amico. Non avevamo niente da dirci. Era tutto chiaro e imperdonabile. Gli indicai la valigia, che la facesse: lo avrei accompagnato, non al porto, lontano, ma alla prima strada asfaltata: la percorresse e sparisse. Lo giudicai e lo condannai. La pena era la cancellazione della mia amicizia. Una sciocchezza. Vedendolo allontanarsi nella notte provai quasi pena, da stupido che ero. Avrei dovuto denunciarlo. Portarlo al posto di polizia e testimoniare contro di lui. Adesso lo so. Sarò più preciso e ferale: lo so da una quindicina d’anni, quando è successo quel che poi era prevedibile.

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“La lingua straniera che non riusciamo ad imparare davvero”, di MASSIMO RECALCATI

LA violenza dei maschi non è solo la manifestazione scabrosa del potere tramandato da una cultura che discrimina le donne. Come l’esperienza clinica ci mostra essa è soprattutto l’espressione di una angoscia profonda di molti uomini di fronte all’alfabeto dell’amore. La donna è infatti per ogni maschio una lingua straniera che esige un continuo e mai compiuto sforzo di apprendimento. La violenza sul corpo e sulla mente delle donne è un modo per aggirare lo spigolo duro di questo alfabeto. L’incontro con una donna implica sempre, per ogni uomo, una quota di angoscia anche se essa può venire spavaldamente (ecco a cosa serve il gruppo con il quale si può barbaramente condividere la violenza) misconosciuta.
La lingua straniera del femminile, l’eteros radicale che essa incarna, non può però essere mai assimilata e estirpata del tutto. Per questo la violenza maschile può assumere le forme più odiose ed efferate e concludersi con la morte della vittima. Un suo paradigma agghiacciante si può trovare nel personaggio psicotico protagonista di Figlio di Dio di Cormac Mc Carthy, il quale uccide le donne come unica condizione per poter avere rapporti, non solo sessuali, con loro. Solo il corpo ridotto a cadavere dovrebbe sancire la neutralizzazione definitiva dell’angoscia. In realtà le vittime si devono drammaticamente moltiplicare perché nessuna violenza potrà mai fare tacere la lingua straniera della donna.

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“Essere amati per piacere e non per dovere ecco la nostra rieducazione sentimentale”, di MICHELE SERRA
A VOLTE provo a ragionare, da maschio, sulla bruta ostinazione con la quale alcuni uomini pretendono di possedere e controllare la “loro” donna, relegarla in casa, costringerla a un amore non sentito, a una devozione non sincera. Qualcosa di ancestrale — di bestiale — abita in quei maschi: l’istinto di trasmettere i propri geni tenendo a distanza quelli altrui. Ma al di là di quell’impulso da tricheco, da orango, e dunque comprensibile e rispettabile nel tricheco e nell’orango, che cosa c’è di gratificante, di eccitante nella sottomissione della femmina? Essere amati per dovere, non per piacere, come può non essere umiliante? A parte le perversioni erotiche, che hanno i loro bravi luoghi e tempi di esercizio, come si fa nella vita vera, e tutta intera, a perseguire una forma così minore e minorata di amore, incatenare qualcuna perché non fugga, farsene carceriere, e se tenta la fuga ucciderla?
A parte questo, e restando più in superficie: come è noiosa l’idea della femmina addomesticata e possibilmente domestica. Com’è mediocre l’uomo che non solo se ne accontenta, ma se ne vanta. Com’è migliore — più vario, più stimolante, più luminoso — il confronto con una tua pari, che ha vita da raccontarti, che ti fronteggia, che oltre ad ascoltarti ti parla, e sei tu che l’ascolti. Come è più vero, più simile alla vita, il “pericolo” di un rapporto esposto al mondo, alle scelte soggettive, al mutamento, perfino al dolore dell’abbandono, che è di gran lunga preferibile alla mortificazione dell’obbligo. Quando ogni maschio capirà, sentirà che cosa perde, perdendo la libertà della “sua” donna, finalmente il mondo potrà cominciare a cambiare.

La Repubblica 22.11.13