Pagato a carissimo prezzo, agli occhi dell’opinione pubblica, il salvataggio della Cancellieri, e appresso a lei del governo, che non avrebbe retto alle sue dimissioni, non è servito purtroppo a ridare un po’ di stabilità a Letta e al suo sofferente esecutivo. A giudicare dal tenore del dibattito di ieri alla Camera, anzi, dopo la rottura del centrodestra maturata nel fine settimana, il virus corrosivo della divisione adesso ha di nuovo aggredito il centrosinistra.
L’idea che con la nascita di una destra di governo, alternativa a quella populista e berlusconiana che si accinge a passare all’opposizione, la maggioranza sarebbe subito diventata più omogenea e più forte, al momento è ancora lontana dalla realtà. Le due destre infatti marciano divise per colpire unite. E soprattutto quella di governo, il Nuovo Centrodestra che avrebbe dovuto incassare il salvataggio della Cancellieri come una propria vittoria, sembra in primo luogo preoccupato di non apparire subalterno al premier e al suo partito. Di qui attacchi simmetrici a Renzi, trattato da avversario, non come possibile nuovo alleato dei prossimi mesi, e additato, per propri interessi congressuali, come vero responsabile della messa in stato d’accusa della Guardasigilli.
Nel centrosinistra inoltre il voto di ieri lascia uno strascico di polemiche e un forte desiderio di rivincite che non tarderanno a manifestarsi. Bastava guardare i visi lunghi dei parlamentari del Pd, che hanno votato per pura disciplina la fiducia alla ministra, o ascoltare l’intervento alla Camera del segretario Epifani – concluso con un invito alla Cancellieri ad adoperarsi per fugare le ombre rimaste sul suo comportamento nei confronti dei Ligresti -, per capire che quello a cui si è assistito a Montecitorio è solo il primo tempo di una partita, che necessariamente si concluderà con le primarie dell’8 dicembre e l’annunciata ascesa del sindaco di Firenze alla segreteria del Pd. Si vedranno allora, dicono tutti, le vere intenzioni del nuovo leader. Ma se anche Renzi all’inizio avesse pensato di stare a guardare, anche per non dar ragione a tutti quelli che si aspettano che alla prima occasione faccia cadere il governo, ciò che è accaduto tra martedì e ieri – con la decisione di Letta di «metterci la faccia», malgrado il sindaco, e prossimo segretario, lo avesse invitato a fare esattamente il contrario, e con dalemiani e bersaniani che giravano per il Transatlantico facendo il gesto «tiè!» -, non costituisce certo un invito al futuro leader a porgere l’altra guancia.
Si dirà che forse era troppo presto, per aspettarsi un rasserenamento della tempesta continua in cui il governo è costretto a navigare fin quasi dalla sua nascita. Ed è vero. Tra qualche giorno, quando le due destre si divideranno sul voto per la legge di stabilità, e quando Berlusconi, dichiarato decaduto, sarà fuori dal Parlamento, il nuovo quadro politico fondato sull’asse tra Letta e Alfano, a cui si deve il salvataggio della Cancellieri, e sulla prosecuzione del governo fino al 2015, dovrebbe prendere corpo e consistenza. E a quel punto si capirà quale dei due nuovi poli della politica italiana sarà più forte, tra quello dei due «dioscuri» di Palazzo Chigi, su cui vigila il Quirinale, e quello movimentista di Renzi, che guarda più alla società civile e alla competizione con Berlusconi e Grillo, che non alle responsabilità istituzionali del partito che si accinge a guidare. Ma intanto, nelle due settimane e mezza che allineano, una dopo l’altra, le tre scadenze dell’approvazione della legge di stabilità, del voto sulla decadenza di Berlusconi e delle primarie del Pd, conviene tenersi pronti a continuare a ballare: perché la tempesta non è affatto finita e il governo dovrà ancora navigare alla cappa.
La Stampa 21.11.13