Il capodanno 2014 rischia di essere il più amaro per il cinema italiano. Il 31 dicembre le sale cinematografiche nazionali dovrebbero passare al digitale, altrimenti rischiano di non avere più film da proiettare, da quella data disponibili solo in formato digitale. E a quaranta giorni dalla scadenza, chi ha già sostituito i vecchi proiettori con il digitale non copre il 70 per cento del mercato.
Al 31 ottobre erano passati al digitale 2.434 schermi sui 3.936 in attività, cioè il 61,8 per cento del totale. Ma nelle ultime settimane l’ammodernamento delle strutture sta crescendo con più intensità e «alla fine dell’anno dovremmo arrivare al 70-75 per cento» sostiene Lionello Cerri, presidente dell’Associazione degli esercenti (Anec), che con la Sezione distributori dell’Anica ha favorito un protocollo per aiutare i «ritardatari»: visto che il passaggio al digitale chiede investimenti intorno ai 50 mila euro per sala (una cifra spesso fuori portata per i bilanci delle piccole monosale) e molte leggi regionali di aiuto alla riconversione diventeranno operative nei primi mesi dell’anno prossimo, i distributori chiedono che entro il 31 dicembre sia almeno «registrato l’acquisto dell’impianto digitale» (di fatto l’impegno a installarlo entro i primi quattro mesi dell’anno nuovo) per continuare a erogare quel contributo economico — il Vpf, Virtual print fee — che hanno messo in campo per favorire il passaggio alle nuove tecnologie (e risparmiare la spesa per la stampa delle copie).
Anche se detto così può sembrare complicato, alla fine la situazione è più semplice e insieme più drammatica perché il restante 25%, cioè una sala su 4, rischia la chiusura: l’Italia sta passando come tutto il mondo alla proiezione digitale (che fa risparmiare il costo della stampa delle copie: 800/1.000 euro ognuna), è in ritardo rispetto al resto d’Europa e ai Paesi più «avanzati» cinematograficamente (come gli Usa e la Francia, a cui una volta contendevamo primati di produzione e di pubblico), ma soprattutto rischia di perdere una parte del suo patrimonio di sale. «Perché le statistiche nascondono le disparità — spiega ancora Cerri —. I grandi circuiti di multiplex, come The Space e Uci, che da soli possiedono circa il 40 per cento degli schermi italiani, sono già tutti digitalizzati. A restare drammaticamente indietro sono le sale di certi centri cittadini dove magari sono l’unico luogo di aggregazione. O le piccole sale di provincia, che difendono con le unghie e con i denti il diritto dello spettatore a una programmazione meno debitrice dei soliti blockbuster».
L’educazione (e il rischio di reazioni) impediscono a Cerri di parlare di «programmazione intelligente», ma di fatto è così: una recente ricerca della Fice, l’associazione dei cinema d’essai, ha dimostrato che il 70, l’80 e a volte anche il 90 per cento degli incassi dei film «di qualità» avviene nei loro cinema. Tanto per fare qualche titolo: Viva la libertà , Quartet , Viaggio sola . Ma anche film come La miglior offerta o La grande bellezza hanno incassato rispettivamente il 39 e il 38 per cento del totale nei locali d’essai. Mica bruscolini.
E però quelli d’essai sono proprio i locali più a rischio: piccole imprese familiari che lottano con i denti per far coincidere indipendenza e qualità. «Per loro il rischio chiusura è dietro l’angolo. E non solo per i costi del passaggio al digitale» puntualizza Mario Lorini, presidente della Fice. «I problemi sono tanti, a cominciare da una distribuzione che, come è stato sottolineato anche dalla recente Conferenza nazione del cinema, ha più di un punto di criticità. Per esempio il fatto che alcuni distributori regionali controllino grandi circuiti di sale, innescando conflitti d’interesse che gli altri esercenti pagano sulla propria pelle». Per non parlare, aggiungiamo noi, dell’ambiguità legislativa che non impone un’autentica «libertà di prodotto», così che spesso certi film sono «negati» a questo o quell’esercente in nome di una razionalizzazione del mercato che può nascondere anche alleanze, vendette o «ricatti».
Interrogato sull’argomento Andrea Occhipinti, neopresidente dei distributori italiani, si rifugia in una battuta: «L’Italia è il Paese dei conflitti di interesse» e si impegna a «lavorare per essere sempre più trasparenti», ma lascia l’impressione che i tempi di questa «democratizzazione cinematografica» siano ancora molto lunghi.
Invece il 31 dicembre è dietro l’angolo. E nonostante gli exploit di Checco Zalone. Perché i suoi sei milioni e mezzo di spettatori hanno solo raddrizzato le statistiche annuali: dal primo gennaio al 17 novembre 2013 gli spettatori in Italia sono stati 80 milioni e 991 mila, solo il 4,54 per cento in più dello stesso periodo dell’anno scorso. E i 45 milioni di incassi di Sole a catinelle non sono riusciti a pareggiare i conti del 2012 (meno 0,91 per cento). Come si vede l’entusiasmo di questi giorni andrebbe almeno un po’ ridimensionato.
Certo, nessuno dichiara che non stamperà più un metro di pellicola (anche per le major hollywoodiane è prassi consolidata), ma business is business e se certe operazioni non saranno più convenienti, allora: addio pellicola. Il che per molte sale vorrà dire chiusura. «E a questo punto il problema sarà occupazionale, di qualche migliaio di posti di lavoro in meno, ma non solo» ci tiene a ribadire Lionello Cerri. «La centralità della sala cinematografica non riguarda solo l’industria, ma anche la loro funzione urbanistica, culturale, sociale. Senza locali di spettacolo, le città si spengono — guardate corso Vittorio Emmanuele a Milano dopo le otto di sera —, le persone hanno meno luoghi di aggregazione e l’identità culturale della nazione perde forza e intensità. Devo ricordare che fu proprio il cinema neorealista a restituire dignità politica a un’Italia che non era uscita molto bene dalla seconda guerra mondiale? O che Fellini e De Sica valgono per il brand Italia come Leonardo e Michelangelo? Se chiuderanno le piccole monosale forse le percentuali del fatturato-cinema non cambieranno di molto, ma l’effetto culturale sarà deflagrante».
Il Corriere della Sera 20.11.13