Si può comprendere la soddisfazione di Enrico Letta: la scissione del Pdl produce una de-berlusconizzazione del governo. Era il risultato politico che si prefiggeva il 2 ottobre scorso e che poi la giravolta del Cavaliere sul voto di fiducia è riuscito a intorbidare. Ma ritenere che il passaggio dalle «larghe» alle «piccole» intese costituisca di per sé il viatico, anzi il propellente, per giungere al voto nel 2015 è ingenuo e superficiale. Nuovi rischi, infatti, si materializzano sul percorso dell’esecutivo. Certo, Letta si è preso una rivincita su chi lo aveva avversato – tra questi, non pochi opinionisti di sinistra da tempo subalterni alla propaganda grillina – sostenendo che il suo era il governo dell’inciucio, che la vera finalità era il salvacondotto per Berlusconi, che il Cavaliere mai avrebbe mollato la presa su questo esecutivo perché rappresentava per lui l’assicurazione sulla vita. Tutto ciò è stato smentito dalla frattura del Pdl, che si è prodotta appunto sulle conseguenze politiche della decadenza di Berlusconi da senatore. La parte che si è raccolta attorno ad Alfano ha accettato l’impostazione di Letta: le vicende giudiziarie vanno separate dai destini del governo. E, al momento, sembra disporre dei voti sufficienti per garantire la maggioranza parlamentare.
Non è poca cosa aver sciolto l’ambiguità, che da oltre un mese consentiva a Berlusconi di tenere in sospeso l’esito del voto di fiducia di ottobre. Non è poco cosa perché la legge di Stabilità è sotto un tiro incrociato – da una parte le forze sociali che chiedono politiche espansive, dall’altra la Commissione europea che pretende maggior rigore nella riduzione del debito pubblico -, perché il caso Cancellieri potrebbe diventare esplosivo se la Procura indagasse il ministro per dichiarazioni mendaci, perché questo Paese in difficoltà ha bisogno di un governo capace di decisioni più rapide ed efficaci. Ma è proprio qui che sorgono i dubbi: la maggior coesione nella maggioranza non assicura da sola la solidità necessaria per affrontare la sfida interna ed europea.
La prima questione complicata riguarda proprio il nuovo profilo del governo È vero che, a dispetto dell’etichetta delle «larghe intese», questo è stato fin dall’inizio un governo senza intese. Governo d’emergenza, benché affidato a uomini di partito e non più a tecnici. Ora si è aperto lo spazio per condividere alcuni obiettivi di fondo: evitare che una nuova tempesta speculativa si abbatta sull’Italia a causa della nostra instabilità, sostenere con le risorse disponibili la ripresa del mercato interno, delineare un programma per il semestre di presidenza Ue che abbia al centro la modifica delle politiche recessive di Bruxelles, attuare finalmente quelle riforme elettorali e istituzionali che scongiurino un altro esito nullo delle elezioni. Ma sarebbe un grave errore da parte di Letta, e dei suoi sostenitori, insistere sulla natura «politica» della nuova maggioranza. Questo non può che restare un governo di necessità. E non deve attenuare il carattere alternativo delle forze che lo compongono.
Conosco l’obiezione, che viene dal fronte opposto al radicalismo oggi di moda: i partiti che non sono capaci di stipulare un trasparente compromesso in Parlamento, non saranno neppure capaci di dar vita a una vera democrazia dell’alternanza. Il principio è giusto. Oggi, però, è proprio la democrazia dell’alternanza che rischia di rimanere offuscata all’orizzonte. E sarebbe imprudente, oltre che improduttivo, avventurarsi propri adesso in un patto politico, mentre Berlusconi scalda i motori della prossima campagna elettorale all’insegna di un populismo di destra e anti-europeo, mentre la Lega e Grillo già si contendono i posti accanto alla signora Le Pen, mentre il congresso del Pd, giustamente, pone a tema la costruzione dell’alternativa di centrosinistra alle prossime politiche.
Meglio concentrare gli sforzi sulle cose da fare. Che non sono poche, né poco importanti. Non è accettabile che l’Italia venga esclusa dalla «clausola di flessibilità», che consente una quota di investimenti fuori dal conteggio del deficit di bilancio. Non è accettabile che le correzioni chieste dall’Europa abbiano effetti recessivi e deflazionistici. Non è accettabile che le politiche sociali (equità, sostegno a chi ha più bisogno) siano azzerate. Ancor più è inaccettabile che sulla legge elettorale, e sulle parziali riforme necessarie a stabilizzare i governi (a partire dalla differenziazione del ruolo delle due Camere), prosegua lo stallo. Se non produrrà risultati in questi terreni decisivi, il governo non ce la farà ad arrivare alla fine del 2014.
Berlusconi all’opposizione è temibile anzitutto perché, con Grillo e la Lega, rafforzerà il fronte anti-europeo come non è mai stato nella nostra storia repubblicana. Né si può sottovalutare il proposito Berlusconi di ricomporre, in chiave elettorale, il centrodestra da Alfano a Maroni. Persino la mini-scissione di Scelta civica è in grado di dare un contributo di destabilizzazione, soprattutto in Senato dove la maggioranza è più risicata.
E poi c’è il Pd che uscirà dalle primarie dell’8 dicembre. Nessun mistero che Renzi preferirebbe votare. Come Cuperlo, si è però impegnato a sostenere e incalzare Letta fino alla fine del 2014. Gli impegni sono attesi alla prova dei fatti e le valutazioni di opportunità possono cambiare. Resta un problema molto serio: se non si cambia il Porcellum, se non si riforma il sistema politico, il neocentrismo di «necessità» può prolungarsi anche nella prossima legislatura. E rischia di far svanire la democrazia dell’alternanza dietro un confuso polverone di populismo e frammentazione. C’è un compito del governo di oggi. E c’è un compito di chi prepara il cambiamento di domani. Lo stallo può far vincere chi scommette sullo sfascio.
L’Unità 18.11.13