Dai festini di Arcore alle notti con Alfano: senza nulla togliere al fascino indiscreto del Vicepremier, diciamo pure che la decadenza del Cavaliere non aveva bisogno del voto in Senato. È già qui, nelle cronache di siti e giornali che nell’ultima settimana hanno raccontato di cene, pranzi, visite, pianti (dell’ex delfino) e urla (dell’ex premier) per tentare di salvare quel che restava di un matrimonio, tanto meno di un partito.
E che hanno celebrato il fallimento di una strategia personale travestita da progetto politico incominciata vent’anni fa in un ipermercato di Casalecchio, quando l’uomo più ricco e felice e fortunato d’Italia, o giù di lì, promise uguale sorte a chi lo avrebbe seguito. L’addio di Alfano nel teatro di Santa Chiara e l’intervento di Berlusconi nel palazzo dei congressi dell’Eur non cambiano la sostanza, anzi la confermano. Il leader che faceva cucù alla Merkel e accoglieva Blair in bandana e camicia è andato in pensione, lasciando il posto a un anziano signore che ha tentato fino all’ultimo di mediare anziché comandare, convincere anziché imporre. Una trasformazione fatale, perché nel «partito del leader» (questa la vera traduzione dell’acronimo Pdl) c’è bisogno del secondo perché possa esistere il primo.
Il cavaliere mediatore è un ossimoro, una contraddizione in termini. Perché o sei l’uno (senza macchia e senza paura) o sei l’altro. E oggi Berlusconi è soltanto l’altro, costretto per oltre un mese a trattare con le colombe che, non a caso, hanno dimostrato di essere più forti e decisive dei falchi.
Se c’è una figura da rottamare, in questa Italia di ritardato fine millennio, è proprio quella del superuomo onnipotente e onnipresente, capace di volare dalla Costa Smeralda alle dacie di Putin passando per le pizzerie di Casoria, come solo i ricchi o gli dei sanno fare. Teniamoci dunque l’uomo, con le sue debolezze, le sue stanchezze, le sue condanne (quattro anni per frode fiscale, giusto per ricordare) e riprendiamoci quel che rimane del Paese, cercando di riagganciarlo al resto dell’Europa se non del mondo.
La lista delle cose da fare è lunga e fa piuttosto impressione. Il Pil è quasi al 2 % sotto lo zero e soprattutto è negativo da nove trimestri nove. La disoccupazione è al 12,5% e salirà ancora. Quattro giovani su dieci non trovano lavoro e forse non lo troveranno mai. Andiamo avanti? Le persone in povertà assoluta sono quasi cinque milioni, ogni giorno chiudono 42 imprese, sei italiani su dieci rinunciano a comprare il pane. Lo sappiamo, molte di queste cifre le avete lette la settimana scorsa su queste colonne, ma non è una ripetizione: è un modo per ricordare a tutti noi che questo, non altro, è il Paese in cui abbiamo la fortuna (chiamiamola ancora così) di vivere. E questi, non altri, sono i numeri che ogni deputato e senato- re dovrebbe scrivere nella propria agenda politica.
È illuminante, da questo punto di vista, come nel lunghissimo intervento di ieri (solo Castro e Chavez avrebbero fatto di meglio) Berlusconi sia riuscito a parlare delle sue ossessioni personali – dalle condanne ingiuste alle toghe sempre più rosse – e a descrivere l’Italia, non come un Paese travolto da una devastante crisi economica e sociale, ma come una terra invasa da soviet e cosacchi, come ha spiegato lui stesso chiedendo ai presenti di tornare a leggere, non i saggi di Stiglitz e Krugman, ma «Il libro nero del comunismo».
Quello di ieri è stato un ritorno al passato, non solo nel nome del «nuovo» partito, ma per i contenuti che lo animeranno. E che ne faranno una formazione di destra sempre più estrema e populista, con pericolosi agganci ai temi antieuro, antitasse e antieuropa già sentiti nei comizi, non solo di Beppe Grillo, ma anche di Marine Le Pen e dell’olandese Geert Wilders.
Il paradosso è che la deriva sempre più estrema di Berlusconi è la miglior campagna pubblicitaria che il «traditore» Alfano potesse sperare di avere, aiutandolo a costruire la sua nuova immagine di politi- co responsabile e indipendente dall’uomo che lui stesso ha seguito e servito per tutti questi anni.
Con la scissione di venerdì e il discorso di ieri, non esiste più un partito di lotta e di governo (come è stato finora il Pdl creando notevoli problemi al cammino di Letta) ma uno di lotta e uno di governo: il primo guidato da Berlusconi insieme a falchi e falchetti, il secondo dall’ex delfino. Una divisione dei compiti, forse non voluta, che almeno nell’immediato potrà forse semplificare la vita e il lavoro dell’attuale presidente del Consiglio.
Un altro effetto della scissione (ma Formigoni la chiama «mancato ingresso in Forza Italia») è l’aver spazzato via, una volta per tutte, l’equivoco sul governo del- le intese «larghe ma impossibili». Quello di Letta e Alfano è ora un esecutivo numericamente più fragile, ma più robusto in termini di chiarezza e di consapevolezza delle proprie possibilità. In tempi di confusione e incertezza, può essere un passo avanti. A una condizione, però: che questo governo delle «piccole intese» ridefinisca, con urgenza e coraggio, le priorità della propria agenda. Ne indichiamo tre, anzi quattro: la legge elettorale, una vera riduzione del cuneo fiscale e un’azione concordata con gli altri Paesi per far sentire la voce di chi, in Europa, chiede, anzi pretende, una politica che punti alla crescita e non solo ai tagli. La quarta priorità la conosciamo tutti: non perdere tempo.
L’Unità 17.11.13