L’ Italia ha il torcicollo. Cammina guardandosi alle spalle, invece di puntare gli occhi sul domani. O meglio, non avanza: arretra. Perché il futuro è un pozzo nero, è un orizzonte claustrofobico, e allora cerchiamo conforto nel passato. Noi italiani, non solo i politici italiani.
Certo la politica offre la rappresentazione più perspicua di questo scoramento collettivo. Qual è la principale novità della stagione? Il ritorno a Forza Italia, vent’anni dopo e con un ciuffo di capelli bianchi sulla fronte. Tuttavia è la regola, non l’eccezione. A destra un gruppo di nostalgici medita di riesumare An, non foss’altro che per nostalgia del suo forziere, ancora carico di dobloni d’oro. Altri, più audaci, vorrebbero addirittura svestire la mummia del Msi. A sinistra Fioroni annunzia a giorni alterni la resurrezione della Margherita. Nella Lega si è rifatto sotto Bossi, candidandosi alla segreteria; e ottenendo subito il ritiro di Tosi, l’homo novus . Al centro Mauro, Casini, magari pure Alfano, sognano la Balena bianca, la riedizione della Democrazia cristiana. Perfino i monarchici hanno ripreso smalto, riunendosi a Palermo in un convegno superaffollato. Come diceva Keynes, il difficile non è fidarsi delle nuove idee, quanto piuttosto fuggire dalle vecchie; altrimenti il nuovo ti riporterà alla stazione di partenza.
Quando è cominciato questo gioco dell’oca? Ci vuol poco a fissarne la data: 20 aprile 2013, il giorno della rielezione di Napolitano al Quirinale. Quando la crisi dei partiti rischiò di debordare in crisi di sistema, sicché il sistema chiese soccorso al vecchio presidente, implorandolo d’incarnare il nuovo. Lui accettò, benché pregustasse già il riposo; ma sta di fatto che da allora in poi le lancette dell’orologio nazionale girano al contrario. La XVII legislatura è cominciata così come era finita la XVI: con un governo di larghe intese. Nella seconda Repubblica non ci era mai successo, ogni elezione scandiva un’alternanza; adesso celebra, casomai, la rimembranza.
E la nuova legge elettorale? Avrebbero dovuto scriverla i partiti, in un ultimo sussulto di fierezza; non ci riescono, sicché dovrà pensarci la Consulta. Sennonché quest’ultima non è un legislatore, non può tirare fuori dal cilindro un altro coniglio elettorale; può solo tosare l’esistente, riportando allo scoperto il pelo vecchio. Perciò delle due l’una: o la Consulta annullerà l’intera legge, e allora tornerà in vigore il Mattarellum (1993-2005); oppure si limiterà a segare il premio di maggioranza, restituendoci un proporzionale puro, come ai bei tempi di mamma Dc (1948-1993).
Succede, del resto, in molti altri capitoli della nostra vita pubblica. Facciamo il passo del gambero sulle pensioni, divorandone il potere d’acquisto. Torniamo indietro sui diritti sociali, dalla salute al lavoro all’istruzione; eppure la nostra Carta li scolpisce sulla pietra. Anche la Costituzione, tuttavia, ha bisogno d’un restyling , sforbiciando per esempio l’eccesso di competenze regionali; ma qui il giochino è facile, basta abrogare la riforma del 2001. C’è chi propone la medesima ricetta per l’università (via la legge Gelmini), non meno che per la prostituzione (via la legge Merlin). Insomma, ogni riforma suona come controriforma, come un decreto postumo del Concilio di Trento. Ma chi controfirma la controriforma? In genere, gli stessi che avevano firmato la riforma. Un artificio per restare sempre a galla, e infatti alle nostre latitudini non c’è ricambio di classi dirigenti, non c’è ossigeno nelle stanze del potere.
Il futuro non è più quello di una volta, diceva Valéry. Oggi lo dice, pressoché all’unisono, il popolo italiano. E infatti i nostri giovani sono i più pessimisti d’Europa, rivela un sondaggio Gallup. Per forza, con una disoccupazione al 40,4% fra gli under 25 in cerca di lavoro. Di conseguenza sono i loro nonni a reggere il vento della crisi, facendo i baby sitter o grattando il fondo del salvadanaio per consentire la sopravvivenza dei figli e dei nipoti. L’ennesima conferma che in Italia il nuovo dipende dal vecchio. Però nel frattempo ci siamo infiacchiti, abbiamo perso la voglia insieme alla fiducia. Siamo diventati un Paese che non scopre, al massimo riscopre: nella moda, nell’arte, nell’industria, perfino in cucina, dove trionfa il revival degli antichi sapori (un milione e 700 mila risultati su Google).
C’è un modo per uscirne fuori? Sì che c’è, ma servirebbe la penna di Licurgo. Con un divieto inciso a lettere di piombo sulla Gazzetta ufficiale: vietata la reviviscenza, delle cose come delle persone.
Il Corriere della Sera 17.11.13