In meno di vent’anni Silvio Berlusconi ha provocato o subito ben quattro scissioni. Il centrodestra è stato il terreno di egemonia della politica italiana ma anche il campo delle divisioni più cruente. Il berlusconismo non ha mai consentito il dissenso. La sua essenza lo ha impedito.
Perché le ragioni della sua nascita erano eccentriche rispetto alla vita delle Istituzioni. I suoi interessi primari sono sempre stati personali o aziendali.
Nel ’94 ha rotto con la Lega per poi ricucire sei anni dopo. Nel 2006 ha sospinto l’Udc di Casini fuori dal perimetro della coalizione. E infine nel 2010 ha sfidato Gianfranco Fini fino a determinare la fuoriuscita dell’ampio gruppone degli ex An. Un passaggio questo che ha poi sancito la fine del suo ultimo governo aprendo la strada all’esecutivo dei tecnici guidato da Mario Monti. La dimostrazione che nonostante un sistema elettorale sostanzialmente maggioritario, la forza del Cavaliere si dimostra incompatibile con la dialettica tipica di un partito. Qualche anno fa Marco Follini, in quel momento suo alleato, aveva parlato di «monarchia» per definire l’assetto di potere costruito intorno al Cavaliere. Ma in realtà l’azione di Berlusconi va persino oltre. I Re preparano la successione. Se non altro per via familiare. In questo caso accade il contrario. Berlusconi si comporta come Crono, la divinità della mitologia greca, che divorava tutti i suoi figli proprio per impedire che qualcuno potesse prendere il suo posto. Ecco ha divorato via via tutti quelli che potenzialmente avrebbero potuto insidiare la sua leadership. Anche i suoi “figli putativi” come Alfano. Ha forse immaginato di lasciare tutto in eredità alla primogenita Marina. Fino ad ora però ha evitato di compiere l’ultimo scempio, la successione dinastica del partito.
Forza Italia e il Pdl si sono poi mossi negando tutte le missioni basilari di ogni movimento politico: selezionare e formare una classe dirigente. Nei partiti maturi la battaglia per la successione si consuma all’interno. Magari con guerre sanguinose, con “parricidi”. Gli esempi non mancano, in Italia e anche fuori dai nostri confini. Per il centrodestra italiano di questo ventennio l’unica alternativa alla competizione e al ricambio generazionale è stata invece la scissione o l’espulsione. Un’ulteriore prova che nulla aveva a vedere con le grandi famiglie politiche europee, compreso il Ppe cui Berlusconi ha sempre formalmente fatto riferimento.
L’effetto di questa ennesima separazione, però, stavolta è diverso. Berlusconi deve affrontare con un alone di debolezza il prossimo voto sulla decadenza. L’arma della crisi di governo a questo punto appare scarica. Al Senato il gruppo di Alfano è sufficiente a garantire la fiducia a Enrico Letta. Anzi, in una certa misura l’esecutivo si rafforza, quasi liberato dagli eccessi demagogici dei falchi. Ma soprattutto questa operazione spinge la ri-nascente Forza Italia ancora più a destra. Diventerà il simbolo del radicalismo populista, schiacciata verso le ali estreme dello schieramento illuminandone la vera natura. Una evoluzione che ha un propellente esclusivamente politico e non giudiziario. Questa volta insomma non può accusare le “toghe rosse” di aver sovvertito il voto popolare e deve semmai prendersela non con un pericoloso comunista ma con il suo ex ministro della Giustizia.
Come è accaduto in passato il leader del Nuovo Centrodestra dovrà fare i conti con le dure attenzioni del multiforme mondo berlusconiano. L’accusa di tradimento è stata già formulata. Il compito di questa neonata formazione non sarà semplice. Dovrà resistere agli assalti dei falchi e consentire la nascita in Italia di un moderno e maturo bipolarismo. Il Pdl e Forza Italia sono stati il simbolo di un avventurismo demagogico. I ministri dell’ex Pdl dovranno dimostrare di essere in grado di costruire un centrodestra “normale”. Per questo si trasformeranno negli alleati più fedeli di Letta. Hanno bisogno di tempo. Devono lasciare che si consumi la parabola del Cavaliere, che venga metabolizzata la decadenza. Sanno che al momento la base elettorale premia ancora il loro ex leader. Le risorse economiche e la capacità di fare campagna elettorale non sono commensurabili. Ma la loro sfida si concentra nella tenuta per tutto il 2014 del governo e sulla fine del “padre putativo” attraverso la decadenza e l’interdizione dai pubblici uffici.
Esistono però una variabile e un appuntamento già fissato che potrebbero rendere assai irto questo percorso. Una eventuale crisi dell’esecutivo con le elezioni a marzo lascerebbe il nuovo partito in mezzo al guado. Il prossimo congresso del Pd e le scelte di Matteo Renzi saranno decisive anche per loro. Mentre nel voto europeo già fissato a maggio si misureranno i rispettivi pesi. Se il risultato degli alfaniani fosse troppo basso, il castello immaginato in queste ore crollerebbe. E si replicherebbe la dinamica che portò alla scomparsa della Dc: nessun erede e l’epifania di un nuovo soggetto politico.
La Repubblica 16.11.13
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