Stallo al Senato. E sembra al momento sfumare l’ampio consenso parlamentare necessario per rimuovere la legge elettorale Calderoli. Malgrado le aggettivazioni denigratorie che sin dalla nascita l’accompagnarono, il Porcellum fu imposto dalla destra nel 2005. Fu imposto perché nelle sue forzature (premi in seggi senza alcun limite) e nelle sue finzioni (elezione diretta del premier d’Italia) apparve come un logico completamento di un disegno costituzionale che prevedeva il premierato assoluto. Un capo con il nome indicato sulla scheda, che ingaggia in solitudine la competizione elettorale per ricevere l’investitura popolare al comando. E poi un lungo elenco di deputati a fare da contorno, privi di ogni autonomia e quindi subalterni rispetto al leader che li ha nominati. Questa è l’accoppiata diabolica che il congegno introduceva. Se non si coglie la perversa funzionalità del Porcellum alla logica mitica della presidenzializzazione, con la leadership che prosciuga la rappresentanza politica e svuota le
prerogative del Parlamento, non si comprende la difficoltà odierna a rimuovere un dispositivo inquietante. Il Porcellum rimane un solido convitato di pietra perché ancora resistono ambiguamente nelle culture superstiti i miti ingannevoli di un presidenzialismo di fatto, con un capo alla ricerca dell’unzione popolare e con i fantasmi di partiti ultraleggeri a rimorchio del leader. Per questa subdola persistenza di una ideologia sconfitta, lettera morta si sono rivelati gli espliciti accenni della Consulta sul carattere incostituzionale dell’abnorme premio di maggioranza e della totale confisca del potere dei cittadini di esprimere i loro rappresentanti. Investita in modo irrituale della questione, la Corte costituzionale si trova in un dilemma. In caso di ossequio alle forme, e quindi di rinuncia a sentenziare, lascerebbe in vigore una legge del tutto incostituzionale. E, in caso di pronunciamento anomalo, la Consulta toglierebbe di mezzo una legge
incostituzionale ma svelerebbe ancora una volta lo scacco di una politica che si fa da parte e lascia decidere i nodi istituzionali più rilevanti a organi tecnici e di garanzia. A nulla sono valse le parole più volte pronunciate dal Capo dello Stato, ribadite anche ieri con l’invito alla responsabilità. Solo questa impotenza delle sollecitazioni morali del Colle la dice lunga sullo sciocco chiacchiericcio imbastito sul presidenzialismo strisciante con il quale «Re Giorgio» dominerebbe la recente storia repubblicana. Esiste in realtà un profondo vuoto della politica e, in questo clamoroso collasso, taluni margini di decisione sono ricoperti dalla sovraesposizione di organi di garanzia ma altri nodi sono lasciati incancrenire da un sistema politico sprovvisto di pensieri all’altezza della crisi.
Machiavelli spiegava che «le repubbliche irresolute» non decidono mai «se non per forza, perché la debolezza loro non le lascia mai
deliberare dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una violenza che la sospinga, stanno sempre mal sospese». È pure comprensibile che attorno alla delicata tecnica di trasformazione dei voti in seggi ogni partito nutra «alcuno dubbio» circa le clausole e le soglie da concordare per non essere troppo penalizzato. Ma quello che non è accettabile, in tempi di crisi di sistema per giunta, è che il calcolo delle convenienze travalichi la lecita cautela per seguire una ottusa resistenza che condanna alla catastrofe la repubblica.
Il Porcellum è il congegno che, quale sua ideologia ispiratrice, ha la promessa di far conoscere la sera stessa del voto il nome del premier d’Italia. Ma neppure questa semplificazione primitiva, vista come cardine del bipolarismo, ha dato i suoi frutti e nel 2008 e nel 2013 nessuna maggioranza è uscita al Senato. Se non si supera il bicameralismo perfetto, neanche un testo illiberale
come il Porcellum è in grado di sancire chi è il vincitore della tenzone elettorale.
L’ancestrale bisogno di rassicurazione, che invoca l’esistenza di un premier certo a chiusura degli scrutini è, in regimi non presidenziali, solo un ingannevole espediente retorico. Neppure in Inghilterra, patria del bipartitismo perfetto, la promessa è stata mantenuta. E in Germania al bipolarismo si affianca a intermittenza la tregua delle grandi coalizioni. Sul terreno elettorale c’è ben poco di nuovo da inventare. In Europa esistono dei collaudati modelli (francese e tedesco su tutti), basta sceglierne uno sulla base delle forze disponibili e dell’idea di sistema politico da strutturare. E lo si faccia in fretta perché il voto di febbraio, con la rottura del vecchio quadro bipolare, contiene per la politica «una violenza che la sospinga» che, se non trova risposte efficaci, è destinata ad aprire una irrimediabile frana per la tenuta della Repubblica.
L’Unità 13.11.13