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“Io, docente pensionato. Al mio posto? Non un giovane”, di Giulio Ferroni

Quest’anno (per la precisione pochi giorni fa, il 1 novembre) sono andato in pensione, dopo aver superato i settant’anni di età: e con me nella mia Facoltà sono andati in pensione altri tredici colleghi e docenti del mio stesso ruolo e altri numerosi di ruoli diversi: sarebbe però possibile, per i professori ordinari (ma solo con determinati requisiti), rimanere in servizio ancora per altri ventiquattro mesi. Mi sembra comunque che questi casi di permanenza siano poco numerosi (almeno nel mio Ateneo, che è la Sapienza di Roma). So poi anche che non mancano colleghi che, come suggerisce il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, continuano ad insegnare gratis dopo il pensionamento: e certo è un titolo di merito, come lo sarebbe l’offerta della propria biblioteca alla propria università (anche se spesso le università non sono attrezzate per sistemate quei libri). È anche vero peraltro che si può sentire il pensionamento come una sorta di liberazione: dalla burocratizzazione che sta uccidendo la vitalità delle nostre università, dagli artificiosi meccanismi che sono stati messi in opera negli ultimi anni e che prevaricano in modo sempre più invadente sulla didattica e sulla ricerca (basta pensare al processo di valutazione, all’assoluta inaffidabilità del metodo e dei dati che ne sono scaturiti). Nella situazione attuale, d’altra parte, la partenza dei «vecchi» raramente viene ad avere come corrispettivo la trionfale avanzata dei «giovani»: dati i vincoli finanziari, all’università la «rottamazione» ha come esito la desertificazione, il progressivo svuotamento. Me ne sarei andato via anche prima dei settant’anni se avessi saputo che al mio posto poteva essere chiamato qualche valido giovane studioso. Vecchi o giovani, l’università rischia il collasso: e questa è un’altra delle ragioni della depressione di questo paese; e a proposito di vecchi e giovani, quest’anno non può non venire in mente il quadro desolato disegnato da Pirandello nel romanzo intitolato proprio «I vecchi e i giovani» (pubblicato proprio 100 anni fa, nel 1913). A me sembra che sarebbe il caso di scrollarsi di dosso la contrapposizione giovani/ vecchi: favorita e promossa dai media, essa fa audience, ma rende ancora più vecchi e decrepiti e non produce nessun posto di lavoro per i giovani. Quello che posso dire al ministro e che mi sento di suggerire è di pensare di più ai contenuti, a quello che i giovani e i vecchi possono ancora fare per uscire dalla cappa che ci opprime. Ma lo dice qui uno che è ormai vecchio e pensionato, che comunque sa di non essere stato mai un vero «barone».

L’Unità 09.11.13

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Università, «i professori in pensione a 70 anni», di Luciana Cimino

Contro la gerontocrazia universitaria. La ministra all’Istruzione pubblica, Maria Chiara Carrozza, ne aveva già parlato giovedì, a ridosso del voto al Senato del dl scuola. «Lavorerò fino all’ultimo minuto contro ogni blocco del turnover alla Ricerca». Ieri è tornata ancora sull’argomento con un attacco frontale alle “baronie universitarie”. «A 70 anni i professori, se fossero generosi e onesti, dovrebbero andare in pensione, e offrirsi di fare gratuitamente seminari, seguire laureandi, o offrire le proprie biblioteche all’università». Nel corso dell’intervista a Radio24 Carrozza non usa sfumature, «chi vuole rimanere in ruolo oltre i 70 anni offende la propria università e offende i giovani, non si può tenere il posto e pretendere di rimanere, solo perché è un diritto. In un momento di sacrifici per tutti, a maggior ragione li devono fare le persone che hanno 70 anni, e che hanno avuto tanto da questo mondo». E quanto al mancato avvicendamento nelle docenze, la ministra ribadisce: «abbiamo pensato di risparmiare bloccando il turnover per anni, il che significa la morte nell’università e nella ricerca. Significa chiudere le porte a ciò che è fondamentale per l’università: il ricambio generazionale». Solo qualche giorno fa alla Statale di Milano sono state bloccate le richieste dei professori decisi a lavorare dopo i 70 anni. Si chiama «prolungamento» e i criteri vengono stabili in autonomia dai singoli atenei. Alla Statale di Milano nel 2013 sono 31 i docenti nati nel 1943 e nel 1944 che potrebbero andare in pensione, ma quasi la metà ha chiesto di restare fino a 72 anni. Tra questi molti nomi di rilievo dell’ambiente medico o accademico. «Anche a Torino abbiamo bloccato i prolungamenti», spiega Alessandro Ferretti, ricercatore e membro di Università Bene Comune. «Il fenomeno di chi avrebbe l’età pensionabile ma non vuole lasciare è diffusissimo, sta ai singoli atenei intraprendere azioni al riguardo». Alla Sapienza di Roma, per esempio, illustri professori hanno ingaggiato una tenzone con il rettore Luigi Frati, deciso a pensionare. Alcuni si sono rivolti al Tar. Tra questi anche un decano dell’ateneo, in cattedra dal 69. Una vicenda simile anche Perugia dove il Tar è stato chiamato ad esprimersi sul pensionamento di un docente. Secondo i dati di Coldiretti i professori universitari italiani hanno una media di 63 anni ma oltre un quarto ha più di 60 anni contro il 10% in Francia e Spagna e l’8% in Gran Bretagna. «Siamo tutti d’accordo che serva un ricambio generazionale ma prima il Miur deve rimettere il turnover al 100% dicono i ricercatori di Università Bene Comune – altrimenti mandare in pensione i settantenni senza ricambio vuol dire che gli atenei saranno costretti a chiudere alcune facoltà o a mettere il numero chiuso. Prima occorre un piano di reclutamento». Anche l’Andu (Associazione nazionale docenti universitari), si dice d’accordo con le parole della Ministra ma aggiunge «il blocco del ricambio generazionale ha lo scopo di ridurre l’offerta formativa e la ricerca. Ma chi volesse realmente aumentare il numero e la qualità dei docenti dovrebbe stabilizzare i migliaia di docenti e ricercatori precari». Mentre per gli studenti del coordinamento Link il problema del baronato non è costituito tanto dall’ età ma dalla gestione del potere e dal reclutamento. «Il sistema nepotistico/ feudale è causato dal super potere che hanno alcuni docenti – nota il portavoce nazionale Alberto Campailla questa cosa incide anche sul piano qualità e della libertà della ricerca. La gerontocrazia domina l’università attraverso gruppi di potere di modo che il reclutamento avvenga solo tramite cooptazione». «Molto positivo che il turnover torni a livelli fisiologici» anche per il presidentedella Crui (Conferenza dei Rettori), Stefano Paleari, «non possiamo continuare a lasciare i giovani al di fuori della prospettiva. Senza questo c’è solo un’altra via: fuggire». E la questione dei cervelli in fuga sembra essere un’altra priorità per la ministra che ha illustrato un progetto in te punti per far rientrare i ricercatori: «Turnover al 50% il prossimo anno; utilizzo delle poche risorse per la ricerca tutte su un programma per giovani ricercatori; premi agli atenei che hanno giovani ricercatori come responsabili dei progetti ricerca». «Nell’immediato futuro voglio far sì che per un’università costi meno chiamare una persona da fuori, favorendo così le carriere diagonali, rispetto a quelle interne».

L’Unità 09.11.13